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Imparare ad accettare la diagnosi di una malattia cronica come il diabete significa dover riorganizzare la propria vita (e quella di chi ci sta vicino) tenendo conto di un limite personale: questo processo può essere doloroso e richiede del tempo per elaborare la notizia e reagire alla malattia in modo attivo e consapevole.

L'atteggiamento del paziente verso il diabete è fondamentale e può fare la differenza. Più ci si informa, si inquadra bene la situazione, si è coinvolti attivamente per reagire e più si riuscirà a tenerlo sotto controllo, pur tra alti e bassi, momenti di sconforto e momenti in cui l'individuo si sentirà soddisfatto delle sue piccole conquiste quotidiane: è una sfida che vale la pena di accettare come investimento per la salute futura: tenere sotto controllo il diabete significa proteggersi dalle complicazioni, anche quando l’assenza di sintomi fa pensare il contrario.
Sono state osservate alcune fasi nel processo di accettazione attiva della condizione diabete: rifiuto, ribellione, compromesso, depressione, accettazione attiva. (Da notare che queste fasi sono le stesse riscontrate in tutte le malattie croniche come le cardiopatie o il cancro).

Spesso, all’esordio del diabete, ci sono lo shock e il diniego della nuova realtà. Ci si comporta, cioè, come se la sindrome non ci fosse e si nota un rifiuto della terapia.
Una seconda fase può essere quella di ribellione: “Perché doveva capitare proprio a me?” “Perché al mio bambino?” “Che cosa ho fatto di male?”.
La terza fase è quella di patteggiamento e accettazione parziale della realtà: si applicano alcuni suggerimenti terapeutici, altri no. È ancora in atto la tendenza a negare la condizione diabete e il non seguire una data prescrizione terapeutica costituisce un tentativo di fuga dalla realtà.

A questo punto può profilarsi una fase di depressione che spesso contiene contenuti di speranza. Questa fase può manifestarsi, sia con un atteggiamento di pessimismo, di sfiducia in sé, di isolamento, sia con atteggiamenti di irascibilità e di aggressività verso tutto e verso tutti.
È importante a questo punto un sostegno psicologico che può essere trovato all'interno della famiglia o anche in professionisti esterni che possono fornire, grazie ai gruppi di discussione, ad incontri di sostegno psicologico o psicoterapie, la liberalizzazione delle proprie ansie per lo più dovute a pregiudizi o a ignoranza.
In questa fase, infatti, i minimi particolari possono avere per la persona una importanza enorme: le parole del medico, degli infermieri, dei familiari assumono una notevole rilevanza e possono diventare motivo esagerato di speranza o di scoraggiamento.
L’ultima fase è quella dell’accettazione attiva del diabete che diventa il “mio diabete”, cioè un modo di vivere, uno stato di salute condizionato e non un concetto generico e minaccioso sul quale non si può esercitare alcun controllo.
Come risultato si ottiene un buon equilibrio metabolico e quindi una prevenzione delle complicanze, attraverso l’integrazione armonica con l’equipe curante e l’adeguamento al regime terapeutico che viene così inserito negli schemi di comportamento quotidiani.
Tale processo, sebbene indichi una crescita, è dinamico e non lineare, cioè non impone un passaggio da una fase all’altra nell’ordine in cui sono state descritte, né suggerisce che una volta arrivati alla fase di accettazione attiva non ci possano essere battute di arresto o ritorni a fasi precedenti.

È, quindi, molto importante partecipare ad attività di educazione sanitaria e sostegno psicologico, corsi di informazione e formazione, gruppi di discussione con altri che vivono la stessa condizione e altre iniziative per il miglioramento dell’immagine e dello status civile e sociale del diabetico, per una maggiore compliance terapeutica, per prevenire rischi e complicazioni.
Va posta una particolare attenzione ai casi in cui ad avere il diabete è un bambino. Il diabete mellito nelle sue varie forme è la più frequente malattia metabolica dell’età evolutiva. In tale fascia di età la forma più diffusa è quella di tipo 1 o insulino-dipendente (DMID).
Dal punto di vista psicologico la comunicazione della diagnosi rappresenta un momento difficile per il bambino e i suoi genitori, come anche la gestione quotidiana della malattia che provoca ansie nella famiglia sconvolgendo gli equilibri relazionali e affettivi preesistenti e comportando uno stravolgimento, almeno iniziale, delle abitudini quotidiane.

I risultati di alcune ricerche scientifiche indicano che i bambini con diabete di tipo 1 sono a rischio di problemi psicologici di adattamento durante le fasi iniziali della malattia. Le visite, i prelievi e le cure rappresentano esperienze che possono alterare la formazione della fiducia di base necessaria per la futura evoluzione dei soggetti diabetici. Per i genitori stessi, la fragilità del loro bambino e la sua immaturità affettiva rendono l’esordio della malattia drammatico.

A livello psicologico diverse sono le reazioni riscontrate nei bambini e nei loro genitori.

Ferita narcisistica: la malattia viene sentita come una minaccia. Il bambino malato e i suoi genitori vivono la malattia come un pericolo della propria integrità psico-fisica. La malattia rappresenta un’esperienza di perdita per i genitori e per il figlio, un attacco al senso di onnipotenza della madre nel soddisfare tutte le esigenze del bambino e, soprattutto, nel difenderlo dagli eventi negativi. Nei genitori si sviluppano forti sensi di colpa e responsabilità. Il potenziale disagio psichico è connesso anche con l’età del bambino al momento dell’insorgenza del diabete. La percezione della gravità e della cronicità della malattia è infatti connessa con lo sviluppo psicologico e fisico del bambino stesso.

Reazione depressiva: ansia e senso di impossibilità di azione e conseguente inadeguatezza. Queste reazioni sono più facilmente osservabili nei genitori. Spesso essi si vergognano inconsapevolmente della condizione di malattia del figlio, sentono le limitazioni di vita connesse con il decorso della malattia cronica, amplificano le possibili complicanze future del diabete. Nei bambini, invece, si possono osservare un calo della prestazione scolastica, una maggiore irritabilità generalizzata, oppure l’insorgere di atteggiamenti regressivi nei confronti dei genitori e una richiesta di iperprotettività.

Atteggiamento di rifiuto e negazione: tale atteggiamento, molto pericoloso, consiste nel negare o banalizzare la malattia.

Atteggiamento dipendente: il bambino dipende dai genitori in tutto, quindi anche nella gestione della sua malattia. Intorno ai 10 anni, invece, può diventare autonomo nel controllo e assunzione della terapia e i genitori ricoprono semplicemente il ruolo di supervisori. Se però i genitori sono iperprotettivi, non sostenendo il figlio a raggiungere l’autonomia, si creerà un rapporto di totale dipendenza e passività del soggetto malato in tutti gli ambiti di vita e non solo in relazione alla malattia stessa.

Atteggiamento perfezionista e ossessivo: consiste in un atteggiamento eccessivamente preciso, ordinato, scrupoloso nel seguire le indicazioni terapeutiche. Il diabete viene curato in modo ossessivo, non lasciando niente al caso.

Il vissuto di malattia del bambino è strettamente condizionato da quello di familiari, genitori e parenti.
L'atteggiamento iperprotettivo dei genitori verso il figlio diabetico costituisce un fattore aggravante per il normale sviluppo psicologico del bambino: esso provoca spesso una condizione di immaturità affettiva e un difficile raggiungimento dell’autonomia dalle figure genitoriali e del sentimento d’identità personale.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

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La transizione alla genitorialità è caratterizzata da un sensibile aumento della vulnerabilità psicologica. Nel periodo perinatale, in particolare, i tassi di incidenza dei disturbi affettivi, sia nelle madri che nei padri, aumentano di due o tre volte rispetto alla media della popolazione generale.
Durante la gravidanza e l’infanzia della prole un compito fondamentale del padre è garantire le condizioni perché la relazione tra madre e bambino si sviluppi e si mantenga in modo adeguato. Questo compito viene assolto in primo luogo occupandosi dei problemi di ordine pratico.
Un’altra funzione maschile di grande importanza, solo recentemente oggetto di ricerche, è quella di proteggere la propria compagna nei periodi in cui è maggiormente esposta a condizioni di potenziale pericolo e a problemi fisici e emotivi. Questi momenti cruciali, nel ciclo di vitale di una famiglia, sono fondamentalmente due: il primo è quello relativo alla gravidanza e ai primi mesi dopo il parto, il secondo coincide con l’adolescenza e l’emancipazione dei figli.

Nel periodo perinatale quindi,un padre troppo preoccupato, ansioso o depresso può rappresentare uno svantaggio per l’equilibrio emozionale della compagna e una minaccia per il buon andamento della relazione tra madre e bambino.
Fino ad poco tempo fa ci si era focalizzati soltanto sul rischio di depressione post partum per la madre, dimenticando però che la gravidanza è un periodo di profonde metamorfosi in cui si possono verificare due depressioni, quella materna ma anche quella paterna, dal momento in cui non nasce solo un figlio, ma anche una madre e un padre.

Fino al secolo scorso il padre come oggetto di studio è stato trascurato. I motivi possono essere legati alla scarsa disponibilità dei padri a partecipare alle ricerche (perché riluttanti a rivelare i propri problemi emotivi), alla minore incidenza e alla diversa espressione della depressione nel maschio, alla propensione dei medici a sottostimare questa patologia (ritenendo la gravidanza e il parto problematiche che coinvolgono solo le donne).
Recentemente, però, l’interesse scientifico per questo argomento è aumentato e le ricerche hanno evidenziato che anche i padri possono soffrire di disturbi affettivi relativi al periodo della gravidanza e alla nascita del bambino, con una incidenza del 10% circa, minore comunque dell’incidenza della depressione post-partum materna.
Il termine Depressione Perinatale Paterna indica la manifestazione nel padre di una sintomatologia depressiva nel periodo che va dall’inizio della gravidanza al primo anno dopo il parto. Rispetto alla depressione post-partum materna la sua espressione clinica è differente, la sintomatologia depressiva è più lieve e i disturbi tendono ad essere meno definiti e sono caratterizzati da vaghi vissuti di tensione, di tristezza, di sconforto e, nei casi più gravi, da stati di impotenza, di disperazione e di malinconia. I disturbi depressivi descritti più frequentemente sono l’umore depresso, l’irrequietezza, l’irritabilità, la preoccupazione costante riguardo l’andamento della gravidanza e la salute del bambino, la perdita di interessi, le difficoltà di concentrazione e di rendimento sul lavoro, l’isolamento sociale, l’aumento o la diminuzione dell’appetito, il calo del desiderio sessuale e l’insonnia. Nel padre le alterazioni dell’umore (pianto, tristezza, senso di incapacità e di impotenza) tendono ad essere più contenute e a presentarsi assieme con altri disturbi affettivi, somatici e comportamentali che tendono a sovrapporsi alla sintomatologia depressiva, oppure a mascherarla. Tra questi in particolare: i disturbi d’ansia (attacchi di panico, fobie, disturbi d’ansia generalizzati, disturbi ossessivo - compulsivi) che sembrano manifestarsi nei giovani padri ancora più frequentemente di quelli depressivi; le lamentele somatiche (disturbi di somatizzazione, sindromi mediche funzionali, preoccupazioni ipocondriache); gli agiti comportamentali (crisi di rabbia, condotte violente, attività fisica o sessuale compulsiva, fughe nel lavoro o con gli amici, suicidio); l’abuso di sostanze (fumo, alcool, psicofarmaci, droghe) e altri disturbi di dipendenza (come quelli da gioco d’azzardo o da internet). In questi casi si manifestano frequentemente disturbi relazionali di coppia, con litigi, conflitti e relazioni extraconiugali (il periodo perinatale è quello in cui gli uomini tradiscono più frequentemente le loro compagne).

Nei casi in cui il padre presenti una sofferenza significativa è necessario rivolgersi ad uno psicoterapeuta per un aiuto psicoterapico individuale (che consenta di ridurre la sintomatologia depressiva e ansiosa, la preoccupazione ipocondriaca e le difficoltà relazionali), di coppia o di famiglia.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

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“Non esiste un modo di essere e di vivere che sia il migliore per tutti. La famiglia di oggi non è né più né meno perfetta di quella di una volta: è diversa perché le circostanze sono diverse”.

Tutti noi abbiamo un’esperienza intima di che cosa sia una famiglia. Questa esperienza, e le relazioni che la strutturano, nel bene e nel male, fanno parte di noi. Questa conoscenza intima della famiglia ce la fa apparire come naturale e ovvia. La famiglia è ciò che Émile Durkheim ha definito un “fatto sociale”, un fatto così ovvio da apparire come dato in natura, al punto da non essere visto nella sua complessità e nelle sue regole storicamente e socialmente situate.
Eppure non c’è nulla di meno naturale della famiglia. Famiglia e coppia sono tra le istituzioni sociali più oggetto di regolazione che ci siano. È la società che di volta in volta definisce quali dei rapporti di coppia e di generazione sono "legittimi" e riconosciuti come famiglia, e quindi hanno rilevanza sociale e giuridica.
Negli ultimi anni sono molti i fattori che hanno contribuito al cambiamento radicale del concetto di famiglia: i fenomeni migratori, l’invecchiamento della popolazione, l’aumento della vita media, le leggi sull’adozione e sull’affido, l’indebolimento del matrimonio come fondamento esclusivo della relazione di coppia e delle scelte procreative, il progressivo riconoscimento delle relazioni omosessuali come relazioni di coppia che hanno uno statuto familiare e la moltiplicazione dei modi in cui si possono realizzare la filiazione e un rapporto genitoriale.
Se ci riflettiamo un poco scopriamo come tramite l’adozione o la procreazione medicalmente assistita (PMA) si può diventare genitori (e conseguentemente figli) senza che ci sia un rapporto sessuale, a volte senza che ci sia una coppia eterosessuale, e altre volte ancora senza che ci sia una coppia. Inoltre le tecniche di fecondazione assistita hanno rotto l’ovvietà del legame biologico tra chi è genitore e chi genera (specie nei casi di donatori esterni alla coppia). E in tutti questi casi sono le norme a stabilire chi può adottare o chi può ricorrere all’ “utero in affitto” oppure chi non è “idoneo”. E le norme cambiano non solo nel tempo, ma anche tra una nazione e l’altra.
Alla luce di questi fattori possiamo identificare moltissimi modi di fare famiglia, nessuno a mio avviso più “corretto” o più “sano” dell’altro, semplicemente modalità differenti tra loro che portano a vissuti psicologici diversi.
Ecco alcuni esempi di realtà familiari tipiche della cultura occidentale:

  • Famiglia patriarcale: in questo tipo di famiglia più generazioni vivono sotto lo stesso tetto.
  • Famiglia nucleare: una coppia eterosessuale forma un nucleo familiare indipendente.
  • Famiglia mononucleare: formata solitamente da un solo genitore e dai suoi figli. Di solito sono la conseguenza o della morte del coniuge o di un divorzio.
  • Famiglia omogenitoriale: nucleo familiare composto da una coppia omosessuale con figli o adottati dalla coppia stessa o di uno dei due partner, o di entrambi, avuti da un precedente matrimonio eterosessuale.
  • Famiglia allargata: si tratta di quelle famiglie in cui almeno uno dei due membri della coppia ha alle spalle un precedente matrimonio o una separazione. In alcuni casi i figli avuti dai matrimoni precedenti si trovano a vivere tutti insieme nella stessa abitazione.
  • Famiglia ricostituita: Si definisce una famiglia ricostituita quando due adulti formano una nuova famiglia in cui uno di loro o entrambi portano un figlio avuto da una precedente relazione. In genere, queste famiglie sono la conseguenza di divorzi, separazioni, famiglie mononucleari o della morte di un coniuge.
  • Famiglie Lat: il termine sta per “Living Apart Together”, vivere separati insieme, cioè una scelta intenzionale di alcune coppie (moltissime attualmente) di non entrare in una convivenza, mantenendo case e vite parzialmente separate.
  • Famiglie adottive: famiglie in cui uno o più figli sono stati adottati.
  • Famiglie transnazionali: questo tipo di famiglie si riferisce perlopiù alle famiglie di migranti. In queste famiglie possono essere i genitori ad aver lasciato il proprio paese lasciando i figli temporaneamente alle cure di qualche parente. In questo tipo di famiglie si possono riconoscere tre tipologie di figli, a volte tutte presenti: i figli nati nel paese di immigrazione, i figli arrivati nel paese di immigrazione con i genitori (o poco dopo) e i figli rimasti nel paese di origine.
  • Le famiglie miste: unioni tra persone diverse di etnia.

Sembra pertanto che il concetto di famiglia non si riferisca più solo a quell’istituzione naturale che la vedeva formata esclusivamente formata da un uomo, una donna e dai loro figli. Occorre considerarla piuttosto come una costruzione sociale, che cambia e si trasforma in base alle dinamiche delle persone, ai mutamenti economici e giuridici, allo stile di vita che viene instaurato nei rapporti all’interno della coppia e all’esterno verso i figli e il mondo.
Indipendentemente da come questi nuovi nuclei familiari siano nati, la consapevolezza che dovrebbe accomunare tutti è che una famiglia nasce sempre e comunque dall’amore, dalla responsabilità e dal rispetto, e non solo ed esclusivamente per legami biologici.
Da un punto di vista clinico, quindi, di particolare interesse risulta l'impatto sul funzionamento familiare dell'interazione tra processi emotivi (p.e. gestione dello stress, della sofferenza, dell'isolamento e di sentimenti depressivi legati alla separazione, al divorzio, al coming-out e all'infertilità), processi identitari (gestione delle perdite relative alla dissoluzione dei precedenti legami, dei conflitti di lealtà e dell'attivazione di risorse per la costruzione di nuove appartenenze) e processi psicosociali (gestione dell'impatto della discriminazione, dell'omofobia, dell'assenza di modelli socio-culturali basati sulla diversità familiare, della scarsità o addirittura mancanza di riconoscimento giuridico, politico e culturale).

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

 

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“E’ cominciata con la paura. Paura delle automobili. Paura dei treni. Paura delle luci troppo forti. Dei luoghi troppo affollati., di quelli troppo vuoti, di quelli troppo chiusi, di quelli troppo aperti. Paura dei cinema, dei supermercati, delle poste, delle banche. Paura degli sconosciuti, paura dello sguardo degli altri, di ogni altro, paura del contatto fisico, delle telefonate. Paura di corde, lacci, cinture, scale, pozzi, coltelli. Paura di stare con gli altri e paura di stare da sola.”

Inizia così il libro autobiografico “Parla, mia paura” di Simona Vinci, all’improvviso, quasi come un attacco di panico. Con il suo linguaggio diretto l’autrice sin dalle prime pagine ci fa entrare all’interno del suo dolore e del suo disagio di stare al mondo. Ci racconta della sua depressione, del suo panico, del suo sentirsi sola, del suo corpo con il quale non è a suo agio. Ci parla dei percorsi che ha fatto per ricominciare a vivere (uno con una psicoanalista, l’altro, contemporaneamente, con un chirurgo plastico), ci riporta alla sua adolescenza, alla sua gravidanza, alla sua maternità, fino ad arrivare all’evento che, forse, è la causa dello scatenarsi del suo malessere.

In una società dove la depressione e altre forme di disagio psicologico, se non tutte, sono un tabù, in cui mostrarsi fragili e vulnerabili è vissuto con vergogna, in cui la maternità deve per forza essere sinonimo di felicità e gioia e mai di stanchezza e malessere, Simona Vinci mettendosi a nudo prova ad offrire ad altri “la possibilità, se non di immedesimarsi, almeno di cogliere un riflesso di sé nelle mie parola”.

L’autrice dichiara la propria riconoscenza ad un solo farmaco, appunto la parola: “è grazie alle parole, quelle che ho letto, quelle che ho scritto, quelle che ho ascoltato e quelle che ho pronunciato, se sono ancora viva”.

Un romanzo che merita di essere letto perché privo di qualsiasi tipo di vena consolatoria, scritto con sguardo severo, incapace di ipocrisia, un romanzo in cui la parola diventa sia condivisione (“ogni vicenda umana è, in qualche modo, di chiunque voglia condividerla”), sia mezzo attraverso il quale affidandoci ad essa, scavando e mettendoci a nudo, facciamo chiarezza impedendoci di precipitare.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

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