Sono anni ormai che si parla di sexting (crasi dei termini inglesi sex e texting), la pratica di inviare o postare messaggi di testo e immagini a sfondo sessuale, come foto di nudo o semi-nudo, inizialmente via cellulare o tramite Internet, oggi sempre più attraverso app e/o social network. Un esempio pratico sono quelle situazioni in cui gli adolescenti producono e condividono in maniera consensuale immagini “sexy” di se stessi, spesso tra fidanzati/e, utilizzando lo smartphone che possiedono ormai in età sempre più precoce.
Secondo uno studio commissionato nel 2009 dal Center di Washington, il sexting può essere suddiviso nelle seguenti tipologie:
Il sexting, divenuto rapidamente una vera e propria moda fra i giovani soprattutto occidentali, consiste principalmente nello scambio di messaggi sessualmente espliciti e di foto e video a sfondo sessuale, spesso realizzate con il telefono cellulare, o nella pubblicazione tramite via telematica, attraverso canali come chat, social network, internet e varie app. Tali immagini, anche se inviate in origine a una ristretta cerchia di persone, in seguito si possono diffondere in modo incontrollabile e creare problemi seri alla persona ritratta.
È un fenomeno comune tra gli/le adolescenti che oggi, data la disponibilità delle nuove tecnologie, vivono in maniera inedita la fase di scoperta della propria identità e, in particolare, della propria sessualità. Il fenomeno si verifica più frequentemente tra i ragazzi delle scuole superiori e proprio per questo è importante la prevenzione durante gli anni della scuola secondaria di primo grado. Dare/diffondere un’immagine “provocante” di se stessi può rappresentare un “regalo” molto intimo o divertente per un fidanzato o una fidanzata; può anche rappresentare un modo per dimostrarsi “adulti” o “più maturi” non solo agli occhi degli altri, ma anche verso se stessi e può aiutare per gestire, a livello inconsapevole, le tante insicurezze tipiche dell’età adolescenziale.
Se non c’è da scandalizzarsi, c’è comunque da ricordare l’importanza di un’attenzione educativa alle relazioni tra i generi, al rispetto dell’altro, all’educazione affettiva e sentimentale. Perché spesso il sexting diventa un problema: il materiale che doveva rimanere privato comincia invece a girare e diventa oggetto pubblico, configurando una dinamica fin troppo nota: uno dei due può tradire la fiducia e la cassa di risonanza fornita da Internet crea un pubblico che alimenta la “vittimizzazione” di colui o colei le cui immagini sono state rese pubbliche senza il proprio consenso.
L’utilizzo delle nuove tecnologie e l’impatto che quest’uso ha nella modalità in cui il fenomeno si manifesta e nelle conseguenze che alcuni comportamenti possono avere nella vita degli adolescenti coinvolti, pone una serie di problemi che riguardano:
È importante sapere inoltre che si può infrangere la legge. Far girare foto del genere, al di fuori dello scambio consensuale e privato, anche tra minori, può essere considerato diffusione di immagini pedo-pornografiche Con la LEGGE 1 ottobre 2012, n. 172 è stata ratificata la Convenzione di Lanzarote sullo sfruttamento e l’abuso sessuale dei minori, in particolare si definisce: Articolo 20.2 - Reati relativi alla pornografia infantile, 2. Ai fini del presente articolo, l'espressione "pornografia infantile" definisce ogni tipo di materiale che rappresenta visivamente un bambino che si dà ad un comportamento sessualmente esplicito, reale o simulato, o qualsiasi rappresentazione degli organi sessuali di un bambino per scopi essenzialmente sessuali.
Le dinamiche di sexting si contraddistinguono per alcune caratteristiche ricorrenti:
Spesso, infatti, i cambiamenti comportamentali sono aspecifici, ovvero possono essere il risultato di differenti problematiche; è però fondamentale essere osservatori attenti per poter aiutare il prima possibile un bambino o un adolescente che si trovi ad esperire una situazione di difficoltà in Rete, qualunque essa sia.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
A partire dagli anni 2000, con l'avvento di Internet, si è andato delineando un altro fenomeno legato al bullismo, anche in questo caso diffuso soprattutto fra i giovani, il cyber-bullismo.
Rispetto al bullismo tradizionale nella vita reale, il cyberbullismo avviene su internet talvolta causando danni violenti. Vediamo le differenze principali tra i due fenomeni:
Come nel bullismo tradizionale, però, il prevaricatore vuole prendere di mira chi è ritenuto "diverso", solitamente per aspetto estetico, timidezza, orientamento sessuale o politico, abbigliamento ritenuto non convenzionale e così via. Gli esiti di tali molestie sono, com'è possibile immaginarsi a fronte di tale stigma, l'erosione di qualsivoglia volontà di aggregazione e il conseguente isolamento, implicando esso a sua volta danni psicologici non indifferenti, come la depressione o, nei casi peggiori, ideazioni e intenzioni suicidarie. Spesso i molestatori, soprattutto se giovani, non si rendono effettivamente conto di quanto ciò possa nuocere all'altrui persona. Il fenomeno del cyberbullismo si può considerare strettamente correlato a quello dei cosiddetti "leoni da tastiera".
Esistono vari tipi di cyberbullismo:
Da una recente ricerca, emerge che il 35% dei ragazzi intervistati è stato vittima di cyberbullismo, ma solo 1 su 2 ha avvisato i genitori (Telefono Azzurro e DoxaKids, 2017). Quando i ragazzi non ne parlano direttamente, per accorgersene lo strumento più importante è il rapporto che si è costruito con loro. Se è buono, è più probabile che siano loro a raccontare ad un adulto di fiducia cosa sta accadendo. Altrimenti ecco alcuni segnali:
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
Il bullismo è una forma di comportamento sociale di tipo violento e intenzionale, di natura sia fisica che psicologica, oppressivo e vessatorio, ripetuto nel corso del tempo e attuato nei confronti di persone considerate dal soggetto che perpetra l'atto in questione come bersagli facili e/o incapaci di difendersi. L'accezione è principalmente utilizzata per riferirsi a fenomeni di violenza tipici degli ambienti scolastici e più in generale di contesti sociali riservati ai più giovani. Lo stesso comportamento, o comportamenti simili, in altri contesti, sono identificati con altri termini, come mobbing in ambito lavorativo o nonnismo nell'ambito delle forze armate.
Il bullismo, a differenza del vandalismo e del teppismo, si presenta come una forma di violenza antitetica a quelle rivolte contro le istituzioni e i loro simboli (docenti o strutture scolastiche): queste ultime sarebbero esogene, dove il bullismo è, invece, endogeno, inoltre è da sottolineare come quasi sempre, in particolare nei casi di ostracismo, l'intera classe di attendenti tende ad essere coinvolta nel bullismo, attivo o passivo, rivolto verso le vittime del gruppo, tramite meccanismi di consenso, più o meno consapevole, non solo nel timore di diventare nuove vittime dei bulli, o per mettersi in evidenza nei loro confronti, ma perché questi spesso riescono ad esprimere la cultura identitaria del gruppo, sia pur in negativo, attraverso la designazione della vittima quale capro espiatorio.
Generalmente, il ciclo può includere sia atti di aggressione sia atti di reazione a disposizione dell'eventuale vittima che sono interpretati come stimolanti da parte del bullo. Il ciclo si basa essenzialmente sulla capacità di avere sempre degli stimoli che possano motivare l'aggressore a porre in essere i propri propositi deviati, a volte reiterati nel lungo termine per mesi, anni o per tutta la vita. Allo stesso tempo il ciclo può essere subito interrotto al suo nascere, o durante la sua progressione, se viene a mancare o l'atto abusivo o la risposta della vittima.
Mentre il coinvolgimento sociale può sembrare complicato per comprendere l'attività bullistica, lo stimolo che più frequentemente è implicato nella riattivazione del ciclo è la sottomissione. Nel momento di percezione dello stimolo, l'istigatore tenta di ottenere un riconoscimento pubblico per ciò che andrà a compiere, come dire: «vedetemi e temetemi, sono così forte che ho il potere di incutere timore verso qualsiasi persona ed in qualsiasi momento senza pagare alcuna conseguenza per le mie azioni!».
Nel momento in cui la vittima dimostra di possedere delle tendenze passive o comunque che la inibiscono di reagire, allora il ciclo continuerà a riattivarsi. Nei casi in cui il ciclo non si è stabilito ancora, la vittima potrebbe rispondere in modo che qualsiasi tentativo da parte dell'aggressore non avrebbe alcun effetto. All'uopo, le istituzioni possono inibire o rafforzare il bullismo, ad es., colpevolizzando le vittime ed inducendole a risolvere da soli i propri problemi.
Il bullismo si basa su tre principi:
Vale a dire un'azione intenzionale eseguita al fine di arrecare danno alla vittima, continuata nei confronti di un particolare compagno, caratterizzata da uno squilibrio di potere tra chi compie l'azione e chi la subisce (ad esempio per la mancanza di una tecnica di autodifesa). Il bullismo, quindi, presuppone la condivisione del medesimo contesto deviante.
Esistono diversi tipi di bullismo, che si dividono principalmente in bullismo diretto e bullismo indiretto.
Il bullismo diretto è caratterizzato da una relazione diretta tra vittima e bullo e a sua volta può essere catalogato come:
Il bullismo indiretto è meno visibile di quello diretto, ma non meno pericoloso, e tende a danneggiare la vittima nelle sue relazioni con le altre persone, escludendola e isolandola per mezzo soprattutto del bullismo psicologico e quindi con pettegolezzi e calunnie sul suo conto.
Nelle azioni di bullismo vero e proprio si riscontrano quasi sempre i seguenti ruoli:
Una prima distinzione è in base al sesso del bullo: i bulli maschi sono maggiormente inclini al bullismo diretto, mentre le femmine a quello indiretto. I maschi in particolare, tendono maggiormente all'approccio di forza, mentre le femmine preferiscono la mormorazione. Per quanto riguarda invece l'età in cui si riscontra questo fenomeno, si hanno due diversi periodi. Il primo tra i 8 e i 14 anni di età, mentre il secondo tra i 14 e i 18, ma negli ultimi anni si sono riscontrati fenomeni di bullismo anche tra i ragazzi di 11 anni e anche di meno.
Una quarta figura è rappresentata dall'"attendente o spettatore" che partecipa all'evento senza prendervi parte attivamente. Il bullismo, quindi, varia da un semplice rapporto diadico ad una gerarchia di bulli che si circuiscono a vicenda.
Gli effetti del bullismo possono essere gravi e permanenti. Il collegamento tra bullismo e violenza ha attirato un'attenzione notevole dopo il massacro della Columbine High School nel 1999. Due ragazzi armati di fucili e mitragliatori uccisero 13 studenti e ne ferirono altri 24 per poi suicidarsi. Un anno dopo un rapporto ufficiale della CIA ha messo in luce ben 37 tentativi pianificati da altrettanti ragazzi in diverse scuole statunitensi, per i quali il bullismo aveva giocato un ruolo chiave in almeno due terzi dei casi.
Si stima che circa il 60-80% del totale del bullismo a scuola, stia evolvendo verso forme inattese in senso stragistico e terroristico. Molti criminologi, ad esempio, si sono soffermati sull'incapacità della folla di reagire ad atti di violenza compiuti in pubblico, a causa del declino della sensibilità emotiva che può essere attribuito al bullismo. Quando, infatti, una persona veste i panni di bullo, assume anche uno status che lo rende meno sensibile al dolore, fino al punto che anche gli attendenti iniziano ad accettare la violenza come un evento socialmente conveniente. A tal proposito l'Anti-Bullying Centre at Trinity College di Dublino è intenta ad approfondire le conseguenze del bullismo sugli aggressori stessi, sia minorenni che adulti, i quali sono più soggetti a soffrire di una serie di disturbi quali depressione, ansia, deficit di autostima, alcolismo, autolesionismo ed altre dipendenze.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
I disturbi d’ansia rappresentano un’area di sovrapposizione diagnostica tra cardiologia e psicologia/psichiatria. Molti pazienti cardiologici presentano una sintomatologia di tipo ansioso che richiede un trattamento psicoterapico e/o farmacologico, mentre molte patologie cardiache possono essere confuse talvolta con disturbi di tipo psichiatrico. Ad esempio, il prolasso della valvola mitralica può manifestarsi esclusivamente con episodi di ansia acuta e con la presenza di palpitazioni, senso di testa vuota, vertigini, affaticamento, dolore toracico e dispnea. La sintomatologia ansiosa potrebbe far cadere nell’errore diagnostico di disturbo da attacchi di panico.
È inoltre tipico del soggetto ansioso adottare stili di vita ad alto rischio per patologie cardiache: abitudine al fumo, iperalimentazione, alcool, ridotta attività fisica. Un altro fattore di rischio importante per patologie coronariche è rappresentato dalla personalità stessa dell’individuo. Diversi studi hanno evidenziato come un determinato pattern comportamentale sarebbe maggiormente incline allo sviluppo di coronopatie e venne definito come comportamento di “tipo A”. le principali caratteristiche del soggetto di tipo A sono: impazienza, accelerazione, rapidità, aggressività, parlare a voce alta, ambizione, competitività, aspettativa di standard eccessivamente alti, comportamento duro, tensione della muscolatura facciale, potenziale ostilità. Tale personalità sarebbe anche caratterizzante del soggetto con ipertensione arteriosa essenziale che rappresenta un fattore di rischio per patologie vascolari acute.
Nella respirazione sono presenti più livelli funzionali: neurovegetativo, somatico automatizzato di base, pattern respiratori legati a specifici quadri emozionali, respiro volontario.
Per un medico è clinicamente semplice osservare e rilevare in un individuo la presenza di uno stato d’ansia in base al respiro rapido e superficiale: il modo di respirare e di gestire il proprio corpo nello spazio è un utile indicatore e indizio dello stato emozionale dell’individuo. Non solo l’emozione influisce sul respiro, ma è anche vero il contrario: il respiro infatti, contrariamente al battito cardiaco e alla motilità gastrointestinale, è facilmente percepito e alterato dal controllo volontario. I pazienti ansiosi sono caratterizzati da un aumento del volume della gabbia toracica, aumento della frequenza e riduzione dell’ampiezza del respiro rispetto ai non ansiosi. L’iperventilazione si accompagna a un aumento della frequenza cardiaca e a un aumento della sensazione soggettiva di ansia. Per questo consiglio sempre ai miei pazienti di non fare respiri lunghi e profondi durante un attacco i panico. La “fame d’aria” rappresenta molto spesso un sintomo dello spettro ansioso, in particolare del disturbo di attacco di panico.
Lo stomaco è il nostro “cervello emotivo”. Le prime descrizioni sulla relazione tra emozioni e funzionalità del tratto gastro – enterico furono condotte nel 1825 dal chirurgo Beaumont il quale osservò le modificazioni causate da vari stati emozionali sulla mucosa gastrica di un individuo che, a causa di una ferita da arma da fuoco, esibiva un ampio segmento esposto di mucosa gastrica. Numerose ricerche hanno evidenziato come situazioni interpersonali ad alto contenuto emotivo modificano l’attività del colon. Questi studi hanno creato un ampio filone di ricerca in ambito psicosomatico.
Ansia e depressione sono frequentemente associate a patologie intestinali infiammatorie. La loro comparsa, quando successiva a una patologia intestinale può essere interpretata come sequela della patologia internistica. Quando, invece, i sintomi psichici precedono la malattia somatica, ansia e depressione potrebbero essere letti come sintomi precoci della patologia o addirittura come una delle cause che concorre al’insorgenza della mallattia somatica.
Vissuti depressivi possono essere correlati anche alle terapie del Morbo di Crohn e ai loro effetti collaterali con significato iatrogeno. La nutrizione parentale, il sondino naso – gastrico e il gonfiore correlato alla terapia steroidea sono tutti fattori stressanti da non sottovalutare. La terapia steroidea protratta, inoltre, può essere direttamente responsabile di alterazioni psichiche, disturbi della sfera affettiva e psicosi.
Fattori psicologici sono stati ritenuti implicati nella patogenesi del Morbo di Crohn, anche se una reale associazione tra fattori psicologici, di tipo emotivo o di stress psicofisico, non è ancora stata dimostrata con certezza. Nonostante ciò, i pazienti trattati anche con psicoterapia riscontrano un maggior benessere soggettivo. Gli interventi psicosociali e la psicoterapia contribuiscono al benessere riducendo i sintomi ansiosi e depressivi, migliorando lo stato fisico generale, le capacità di rilassamento, di adattamento alla malattia e di socializzazione.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
La malattia rappresenta per tutti un evento traumatico che può rievocare contenuti rilevanti di angoscia; la modalità di reazione a tale evento reale, presunto o fantasticato, dipende da una serie di fattori, determinati a loro volta da problemi medici, sociali e psicologici quali: la malattia stessa con il suo decorso, i sintomi, le eventuali recidive, il tipo di trattamento prescritto, il grado di supporto sociale disponibile, fattori culturali e caratteristiche di personalità.
Il modo di percepirsi malato e di reagire alla malattia, è intimamente connesso con la simbolizzazione del proprio corpo e della malattia stessa. La superficie corporea, infatti, assume in sé la duplice funzione di confine: è limite dello spazio esterno e delimitazione simbolica di quello interno.
L’evento malattia e la connessa sofferenza, vengono ad alterare le coordinate dello spazio corporeo, perturbando la complessa trama che lo costituisce e lo sostanzia. Il paziente può fantasticare che un agente patogeno aggredisce il suo corpo dall’esterno, oppure sentire la propria integrità minacciata dall’interno e il disordine della malattia può essere psicologicamente confinato in una regione circoscritta del suo corpo oppure invaderlo tutto. Il paziente ansioso molto spesso riferisce al medico unicamente un ricco corteo sintomatologico (tachicardia, dispnea, palpitazioni, vertigini) e spesso, solo in una fase successiva, si rivolge allo psicologo o psicoterapeuta, in quanto attribuisce inizialmente all’evento un significato di disfunzionalità d’organo. La diagnosi riferita dal paziente rappresenta, dunque, l’intera rete di opinioni, più o meno articolate e coerenti, che egli ha di sé come persona, della situazione e del suo disagio, dei motivi che a suo parere li hanno determinati, nonché delle possibili tattiche che può aver formulato dentro si sé ed eventualmente tentato di realizzare per modificare la sua condizione. Considerare la diagnosi che il paziente ha formulato e il processo logico con cui ciò è avvenuto, sicuramente permette di arricchire qualitativamente e quantitativamente le conoscenze relative alla sua struttura psicologica e alle sue organizzazioni difensive.
In riferimento alle procedure diagnostiche operate su di sé dal paziente, possono presentarsi diverse situazioni: il paziente può fornire come “causa” della sua sofferenza di disagio uno specifico evento scatenante o una sequenza di eventi e dinamiche relazionali, presentando così una diagnosi eziopatogenetica soggettiva. In tal caso, egli comunica immediatamente quale è, a suo parere, il rimedio per fronteggiare la situazione che sta vivendo e ha semplicemente bisogno di una conferma e di un supporto. In altri casi, invece, il paziente si presenta al clinico avendo già formulato una sua ipotesi diagnostica “di copertura”. L’ansia di fondo, in questi casi, è “spostata” e nascosta nel sintomo e non realisticamente accolta come contenuto del pensiero. Compito del clinico in tal caso è aiutare il paziente a individuare dietro i sintomi il pretesto che rimanda a significati diversi, rintracciabili spesso nella vita sociale, relazionale e affettiva dell’individuo.
L’interazione tra fattori psicologico – comportamentali e salute fisica può esplicitarsi essenzialmente attraverso due direzioni.
La prima considera gli effetti di comportamenti specifici sulla salute fisica. Specifici stili di vita che espongono l’organismo ad agenti o situazioni patogene ad alto rischio per lo svilupparsi della patologia stessa: assunzione di alcolici, iperalimentazione con preferenza di alimenti ricchi di zuccheri e grassi, abitudine al fumo e/o droghe. Tali comportamenti sono di solito accentuati per fronteggiare difficoltà emozionali quali solitudine, apprensione, noia o ansia.
La seconda direzione evidenzia la correlazione esistente tra reazioni emozionali e i suoi correlati organici. Le emozioni sono costituite da un aspetto soggettivo, caratterizzato da un modo di descriverle particolare e individuale, sia da evidenti modificazioni somatiche che sottendono al sistema limbico. Dunque le reazioni emozionali rivestono un ruolo importante come fattore patogenetico.
L’arousal è l’espressione neurologica dell’alterazione omeostatica provocata da stimoli provenienti dall’ambiente esterno o interno. È una condizione temporanea del sistema nervoso, in risposta ad uno stimolo significativo e di intensità variabile, di un generale stato di eccitazione, caratterizzato da un maggiore stato attentivo-cognitivo di vigilanza e di pronta reazione agli stimoli esterni. È legato all’analisi dell’input ed è presente sia nel riflesso di orientamento sia nei processi cognitivi più complessi e di maggior durata, dove prende il nome di attenzione e vigilanza. In questo caso il fenomeno dell’attivazione – vigilanza può essere sostituito dal termine ansia. Il livello di eccitazione proprio dell’ansia può crescere d’intensità producendo quadri fenomenologici differenti: dall’ansia alla paura, allo spavento e al terrore. Da comportamenti cognitivamente orientati si giunge a risposte puramente emozionali, in cui la componente eccitatoria, oltre che innalzare l’attività corticale, giunge fino ai centri encefalici con manifestazioni somatiche e viscerali.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
I disturbi d’ansia rappresentano l’area di più frequente incontro nella pratica clinica di psicologi, psicoterapeuti e medici di base. Più di un terzo dei pazienti trattati dai medici di medicina generale presenta disturbi emotivi, soprattutto ansia e depressione, diagnosticabili a livello clinico - psichiatrico. Inoltre l’ansia costituisce un’aggravante tanto subdola quanto pericolosa di ogni tipo di patologia. Subdola, perché spesso coperta e confusa con sintomatologie più facilmente obiettivabili e tradizionalmente meglio studiate ed evidenziate nella cultura medica. Pericolosa, perché può anticipare o accompagnare disturbi inevitabilmente ancora più gravi sul piano psichiatrico e può causare maggiori difficoltà di cura della patologia somatica.
I disturbi d’ansia sembrano costituire la maggior parte dei costi dell’intera salute mentale per la loro incidenza, per la loro elevata possibilità di diventare cronici, di presentarsi insieme con altri disturbi psichiatrici e non, e di complicarsi durante il loro decorso. Un altro motivo è correlato, soprattutto nei disturbi somatoformi o psicosomatici, al ricorso a indagini strumentali, inizialmente per effettuare una diagnosi differenziale e poi per la continua ricerca di rassicurazioni da parte dei pazienti.
Da sottolineare che poco più del 20% dei pazienti ansiosi viene trattato, mentre la maggior parte di essi non cerca alcun aiuto, oppure lo trova in un abuso da sostanze (nell’alcool per esempio), nei farmaci da banco o in pratiche non scientifiche.
Il sintomo ansia è importante nella pratica medica poiché costituisce una delle più comuni, anche se spesso non riconosciute, ragioni di contatto con il medico di base. Infatti, oltre ai sintomi di tipo ansioso facilmente riconoscibili, l’ansia può manifestarsi attraverso lo sviluppo di un ampio spettro di sintomi fisici che il paziente non attribuisce ad essa.
L’ansia è un affetto, per quanto sgradevole, di comune riscontro in vari momenti e situazioni della vita umana. Si esprime con vissuti soggettivi dominanti di paura, preoccupazione immotivata, ideazione monotematica su contenuti di minaccia, anticipazione apprensiva di un pericolo o di una disgrazia imminente. Gli eventi temuti possono essere estremamente improbabili o addirittura impossibili, oppure possono verificarsi, ma vengono avvertiti e temuti in modo abnorme e del tutto sproporzionato rispetto alla loro reale entità.
L’ansia può costituire una normale risposta fisiologica, sia comportamentale sia psicologica, di fronte a condizioni obiettivamente difficili o inusuali. Una risposta di tipo ansioso, in previsione di situazioni nelle quali è richiesta un’alta prestazione, è una modalità adattiva necessaria ad affrontare adeguatamente l’evento e consente l’attivazione di iniziative e comportamenti utili all’adattamento, determinando un miglioramento della performance. In quest’ottica è una normale modalità esistenziale, fondamentale per la sopravvivenza e l’evoluzione dell’individuo in quanto segnale preparatorio di attacco – fuga e spinta alla conoscenza. Un livello di tensione ottimale è utile per sviluppare e realizzare al meglio le proprie capacità, ad esempio nell’affrontare un esame, una competizione sportiva o nel parlare in pubblico.
L’ansia quindi viene considerata destrutturante o disadattiva, quindi ansia patologica, quando diviene fonte di sofferenza soggettiva e disturba, in misura più o meno notevole, il funzionamento psichico globale dell’individuo, incidendo negativamente sulla qualità di vita. Un livello eccessivo di ansia infatti determina maggiore incidenza di dimenticanze ed errori, perdita della coordinazione motoria fine, perdita di sicurezza, sentimenti di costrizione e panico.
L’ansia svolge la sua azione all’interno di tre aree principali: somatica, cognitivo – psicologica e comportamentale.
È importante poter distinguere tra ansia-tratto e ansia-stato. L’ansia-tratto costituisce una caratteristica relativamente stabile della personalità, una sorta di predisposizione all’ansia: i soggetti con ansia-tratto elevata tendono a percepire le situazioni come particolarmente minacciose e pericolose e a reagire a esse con ansia di elevata entità. Tali soggetti sono caratterizzati da una marcata reattività agli stimoli, fragilità dell’Io, una forte tendenza alla sensitività e alla colpa, per cui rispondono con ansia elevata soprattutto a quelle circostanze che rappresentano una minaccia alla propria autostima.
L’ansia-stato rappresenta invece il livello di ansietà temporaneo, per lo più in rapporto a stimoli o situazioni particolari e contingenti che costituiscono una fonte di conflitto e stress per l’individuo. L’ansia-stato si manifesta con la sensazione soggettiva di tensione, nervosismo, irritabilità e con la presenza del corteo sintomatologico proprio per l’attivazione del sistema nervoso autonomo.
L’ansia inoltre può avere un carattere “primario”, vale a dire indipendente da altri disturbi, o avere un carattere “secondario” quando appare essere un correlato o una conseguenza di altri disturbi.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
I meccanismi di difesa sono delle particolari funzioni che hanno come scopo quello di proteggerci dal provare sentimenti ritenuti intollerabili.
In un articolo precedente ho illustrato i meccanismi di difesa primari, quelle difese che implicano il confine tra il mondo esterno e il Sé. In questo articolo presenterò i meccanismi di difesa secondari, di ordine superiore, che hanno a che vedere con i confini interni tra la parte di noi che vive l’esperienza e quella capace di osservare. Mentre le difese primitive operano in modo globale fondendo dimensioni cognitive, affettive e comportamentali, le difese più evolute operano trasformazioni specifiche del pensiero, del sentimento, della sensazione, del comportamento, o di una loro qualche combinazione. Come già sottolineato nel precedente articolo, tutti noi utilizziamo i meccanismi di difesa, sia primari che secondari. I problemi sorgono quando utilizziamo solo e sempre uno o due meccanismi di difesa a prescindere dalla situazione che ci si presenta.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
I meccanismi di difesa sono delle particolari funzioni che hanno come scopo quello di proteggerci dal provare sentimenti ritenuti intollerabili.
Le principali categorie diagnostiche utilizzate dagli psicoterapeuti ad orientamento dinamico per definire i tipi di personalità si riferiscono implicitamente all’azione persistente nell’individuo di una difesa o costellazione di difese. Un’etichetta diagnostica è dunque una sorta di abbreviazione che indica il modello difensivo abituale di una persona.
Quelle che negli adulti maturi finiamo col chiamare difese si strutturano inizialmente come modi globali, inevitabili, sani e del tutto adattivi di percepire il mondo. Freud fu il primo a osservare e definire tali processi e la scelta del termine “difesa” riflette almeno due aspetti del suo pensiero. In primo luogo Freud era appassionato di metafore militari. In secondo luogo quando si imbatté per la prima volta negli esempi più vistosi e memorabili di quelle che oggi chiamiamo difese, osservò l’attività di questi processi nella loro funzione difensiva. Le persone facevano di tutto per evitare di rivivere quello che temevano sarebbe stato un dolore insopportabile.
Sfortunatamente l’idea che le difese fossero in qualche modo qualcosa di negativo, per natura disadattive, si diffuse tra il pubblico profano al punto che definire qualcuno “difensivo” è universalmente inteso come una critica.
In realtà i fenomeni a cui ci riferiamo come difese hanno molte funzioni positive. Si manifestano come adattamenti sani e creativi e continuano a operare in senso adattivo per tutta la vita. La persona che si comporta in modo difensivo in genere cerca inconsciamente di ottenere uno o entrambi i seguenti obiettivi:
1) evitare o comunque gestire qualche sentimento intenso e minaccioso, di solito l’ansia e l’angoscia;
2) mantenere l’autostima.
Tutti noi abbiamo alcune difese preferenziali che sono diventate parte integrante del nostro stile individuale di confronto con le dimensioni problematiche. Questo ricorso preferenziale e automatico a una particolare difesa o serie di difese è il risultato di un’interazione complessa tra almeno quattro fattori:
1) il temperamento costituzionale;
2) la natura dei disagi subiti nella prima infanzia;
3) le difese presentate dai genitori o da altre figure significative;
4) le conseguenze sperimentate dell’uso di particolari difese.
Convenzionalmente gli autori psicoanalitici tendono a distinguere tra difese primarie e secondarie. Le difese primarie, o primitive, sono quelle che implicano il confine tra il mondo esterno e il Sé, mentre le difese più evolute, quelle definite secondarie, di ordine superiore, hanno a che vedere con i confini interni tra la parte di noi che vive l’esperienza e quella capace di osservare. Tutti noi utilizziamo i meccanismi di difesa, sia primari che secondari. I problemi sorgono quando utilizziamo solo e sempre uno o due meccanismi di difesa a prescindere dalla situazione che ci si presenta.
Di seguito illustrerò i processi difensivi primari. Ci si renderà presto conto che le difese primitive sono semplicemente i modi in cui noi riteniamo che il bambino piccolo percepisca naturalmente il mondo.
I processi difensivi primari sono:
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
Nella nostra quotidianità, nelle nostre scelte e decisioni, all’interno delle nostre relazioni ogni giorno ci confrontiamo in modo più o meno consapevole con stereotipi sociali, pregiudizi, miti, errate convinzioni che inevitabilmente, pur di conformarci a dei canoni sociali, ci ingabbiano in modalità relazionali e scelte di vita non funzionali al nostro benessere. Quando si tratta di prendersi cura della propria salute fisica generalmente non ci adattiamo a particolari stereotipi per cui, se non stiamo bene, ci rivolgiamo al nostro medico di fiducia il quale ci farà fare degli esami di approfondimento oppure ci invierà ad uno specialista del settore. Le cose cambiano quando a stare male non è il nostro corpo ma la nostra psiche. Quando ci troviamo nella condizione di sottovalutare i nostri sintomi psicologici (stress, ansia, umore vacillante, manifestazioni psicosomatiche, difficoltà decisionali, conflitti relazionali, …) stiamo aderendo ad uno dei miti sopra citati.
Il basso tasso di persone che cercano cure psicologiche è da attribuire allo stigma e alle tante leggende metropolitane connesse alla figura dello psicoterapeuta e alla psicoterapia. Senza dubbio il cinema, la letteratura e la televisione per anni hanno contribuito alla creazione di queste false leggende. In questo articolo vorrei provare a riflettere su alcuni pregiudizi che negli anni si sono formati sulla psicoterapia psicoanalitica e che, facendo ormai parte del sapere comune, a volte sono molto difficili da superare e impediscono a molte persone di chiedere aiuto ad un professionista.
In psicoterapia ci vanno i “pazzi”: la scelta di percorrere un percorso di psicoterapia a mio avviso è una scelta per persone intelligenti che con coraggio scelgono di impegnarsi per migliorare la propria vita, individuare i propri obiettivi e raggiungerli. Come diceva Albert Einstein “follia è fare sempre la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi”.
La psicoterapia è costosa: la psicoterapia è un investimento su di sé. È molto più costoso, non solo in termini economici ma soprattutto in termini psichici non affrontare un problema piuttosto che affrontarlo. Ma vorrei chiarire questo punto con qualche esempio in modo da mettere in luce come una psicoterapia, grazie ai suoi effetti durevoli, possa fare risparmiare nel tempo risorse quali il denaro o altro, prevenendo dal fare scelte sbagliate. Pensiamo ad un uomo che, grazie ad un percorso psicoterapeutico, riesce a modificare alcuni suoi atteggiamenti che lo avrebbero portato a dover divorziare dalla moglie (non volendolo) e a doversi allontanare dai suoi figli; la psicoterapia in questo caso non solo permette a quest’uomo di vivere in modo pieno la famiglia, evitando disagi e traumi in tutti i componenti della famiglia stessa, ma evita anche tutta una serie di spese (avvocati, alimenti alla ex moglie, assegni di mantenimento ai figli) che inevitabilmente quest’uomo avrebbe dovuto sostenere. Oppure pensiamo a cosa può “guadagnare” chi, dopo un percorso di psicoterapia, riesce ad affrontare la vita senza essere paralizzato dall’ansia o da attacchi di panico in prossimità di occasioni importanti per il proprio futuro lavorativo, come ad esempio esami universitari o colloqui di lavoro, eventi davanti ai quali prima o si bloccava o metteva in atto dei comportamenti volti ad evitarli. Vista in questi termini la terapia ha un valore molto alto, che va oltre il denaro speso per investire su di sé.
La psicoterapia dura troppo tempo: anche questo è un pregiudizio antico collegato all’idea sbagliata che chi rimane a lungo in psicoterapia lo fa perché non ne trae beneficio. La verità è tutto l’opposto. Le persone, quando ne hanno l’opportunità, tendono a restare più a lungo in un trattamento analitico non perché non stanno ricevendo alcun aiuto, ma proprio perché lo stanno ricevendo.
Scavare il passato non sarà utile: riportare alla memoria cose complicate e dolorose vissute nel passato può, naturalmente, essere difficile. Farlo, assieme al terapeuta, permetterà di vedere questi eventi in un’ottica differente, al fine di avere una comprensione chiara del perché gli eventi passati influenzano le decisioni nel presente.
La terapia ti fa provare colpa e vergogna: gli psicoterapeuti tengono ai loro pazienti, sono senza pregiudizi, sono compassionevoli e comprensivi, il loro scopo primario é aiutare gli individui a prendere da soli le loro decisioni. I sentimenti di colpa e vergogna già presenti sono senza dubbio esplorati all’interno di una psicoterapia, ma non sono di certo causati o fatti emergere intenzionalmente dal terapeuta.
Lo psicoterapeuta attribuisce tutti i problemi ai genitori o alle esperienze infantili: esplorare le proprie esperienze infantili e gli eventi significativi che hanno inciso sulla propria vita e su come ci siamo evoluti come persone è sicuramente una componente importante della psicoterapia. Informazioni che riguardano il proprio contesto familiare e gli eventi significativi di vita aiutano a capire il nostro modo di percepire e sentire. Portare la persona a guardarsi indietro è finalizzato a capire meglio il presente e questa comprensione e consapevolezza può essere punto di partenza per fare cambiamenti positivi per il futuro.
Gli psicologi semplicemente ascoltano e fanno sfogare, quindi perché pagare qualcuno solo perché ascolti?: all’inizio del percorso di terapia lo psicoterapeuta chiede di descrivere il problema che vi ha portato nel suo studio, ma l’ascolto è solo il punto di partenza. Potrà anche raccogliere informazioni rilevanti sulla vita passata, così come la storia dei problemi e di altre importanti aree della vita, ed i modi in cui si è cercato di affrontare i momenti difficili. La psicoterapia è tipicamente un processo interattivo e collaborativo, basato sul dialogo e sull’impegno attivo del paziente. Paziente e psicoterapeuta identificano insieme i problemi, le loro origini, impostano obiettivi, camminano fianco a fianco lungo il percorso terapeutico e monitorano i progressi.
Parlare con i familiari o con gli amici è efficace quanto andare dallo psicoterapeuta: il sostegno di familiari e amici è di fondamentale importanza quando si sta attraversando un periodo difficile. Ma quello che è in grado di offrire uno psicoterapeuta è molto di più. Gli psicoterapeuti hanno anni di istruzione specializzata, formazione ed esperienza che li rendono professionisti esperti nella comprensione e nel trattamento di problemi complessi. É quindi molto più di un “solo parlare e ascoltare”. Gli psicoterapeuti sono in grado di riconoscere modelli di pensiero e comportamento in modo oggettivo, che le persone più vicine a voi possono aver smesso di notare o di cui possono non essersi mai accorte. Inoltre lo psicoterapeuta può apparentemente offrire commenti o osservazioni simili a quelle che fanno le persone a voi vicine nella vita quotidiana, ma il loro aiuto può essere efficace per la tempistica con cui vengono fatte tali osservazioni, per la possibilità di mettere a fuoco il problema e le dinamiche connesse e per il vissuto di fiducia nella posizione neutrale del professionista. Un’altra importante considerazione da fare è che con il proprio psicoterapeuta è molto più facile parlare in libertà e in modo onesto perché la relazione professionale si fonda sulla riservatezza, per cui non si ha alcuna preoccupazione che qualcuno venga a sapere quello di cui si è discusso. Non è raro che le persone spesso raccontino ai loro psicoterapeuti cose che non si sono mai sentiti di rivelare a nessuno.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
La parola tanatofobia deriva dal greco thanatos che significa morte, e phobos che significa paura, letteralmente “paura della morte”. La tanatofobia, colpisce milioni di persone in tutto il mondo. In alcuni individui può generare ansia e/o pensieri ossessivi. Più precisamente, la tanatofobia è la paura della morte e/o della propria mortalità, mentre la paura delle persone che muoiono o delle cose morte è conosciuta come "necrofobia", che è un concetto leggermente diverso. La nostra esistenza è sempre adombrata dalla consapevolezza che cresceremo, giungeremo a maturazione finché, inevitabilmente, avvizziremo e moriremo.
Per alcuni la paura della morte si manifesta solo in modo indiretto, vuoi come un’inquietudine generalizzata o mascherata sotto le sembianze di un diverso sintomo psicologico; altri individui sperimentano un flusso esplicito e cosciente di angoscia nei confronti della morte; e per altri ancora la paura della morte si manifesta nell’esplosione di un terrore che impedisce qualsiasi felicità e realizzazione.
L’angoscia riguardo alla morte aumenta e diminuisce durante il ciclo vitale. I bambini fin da piccoli non possono fare a meno di notare il manifestarsi intermittente della mortalità che li circonda (foglie, insetti e animali domestici morti, nonni che scompaiono). Poi, dai sei anni fino alla pubertà la paura della morte solitamente rimane in secondo piano per erompere con tutta la sua forza durante l’adolescenza. Gli adolescenti spesso sono assillati dalla morte e alcuni di loro prendono in considerazione l’idea del suicidio. Molti giovani di quell’età possono rispondere all’angoscia di morte diventando maestri e dispensatori di morte nella vita virtuale, grazie ai videogiochi. Altri sfidano la morte con umorismo macabro e canzoni in cui viene schernita, o guardando film horror con gli amici. Altri adolescenti sfidano la morte affrontando rischi temerari. Con il passare degli anni le preoccupazioni adolescenziali nei confronti della morte vengono spinte da parte dai due compiti principali dell’esistenza di un giovane adulto: dedicarsi alla carriera e mettere su famiglia. Tre decadi più tardi, quando i figli si allontanano da casa e ci si avvicina alla pensione, si viene assaliti dalla crisi di mezza età e l’angoscia della morte erompe con tutta la sua forza.
Sin dall’alba dei tempi la morte ha avuto un ruolo centrale nelle dottrine religiose e nel pensiero filosofico. Secondo Epicuro, filosofo greco nato nel 341 a.C., c’era un solo obiettivo adeguato per la filosofia: alleviare la miseria umana causata dalla nostra onnipresente paura della morte. Secondo questo filosofo, il cui nome è legato alla corrente di pensiero dell’epicureismo, la visione spaventosa della morte interferiva con il godimento della vita e intaccava ogni forma di piacere. Fa parte del genio di Epicuro aver anticipato la visione contemporanea dell’inconscio: fu lui a evidenziare infatti che le preoccupazioni di morte non sono consapevoli per la maggior parte degli individui, ma devono essere dedotte da manifestazioni sotto mentite spoglie. Epicuro formulò una serie di argomentazioni per tentare di alleviare l’angoscia della morte. Ne propongo tre, a mio avviso preziose all’interno di un lavoro di psicoterapia.
La prima argomentazione è quella della mortalità dell’anima. Secondo Epicuro l’anima è mortale e perisce assieme al corpo. Se siamo mortali e l’anima non ci sopravvive, allora non abbiamo nulla da temere, non avremo coscienza né rimpianti.
Nella seconda argomentazione Epicuro ipotizza che la morte per noi non sia nulla, in quanto l’anima è mortale e si disperde con la morte. Quel che è disperso non percepisce, e qualsiasi cosa non percepita per noi è il nulla. In altre parole: dove sono io, non è la morte, dove è la morte non sono io. Epicuro affermava: perché temere la morte se noi non la possiamo mai percepire?
La terza argomentazione di Epicuro sostiene che la nostra condizione di non essere dopo la morte è la stessa nella quale ci trovavamo prima della nascita. Credo sia confortante pensare che le due condizioni del non essere, il tempo che precede la nostra nascita e quello che segue la nostra morte, siano identiche e che noi abbiamo tanta paura della seconda e così poca preoccupazione riguardo alla prima.
Il dover affrontare l’idea della morte non porta necessariamente alla disperazione e non priva la vita di qualsiasi scopo. Al contrario può essere una consapevolezza che conduce ad una vita più piena. Secondo Irvin D. Yalom, psichiatra e psicoterapeuta americano di fama mondiale, anche se la fisicità della morte ci distrugge, l’idea della morte ci salva. Secondo l’autore alcune esperienze, che lui chiama esperienze di risveglio, ci fanno sintonizzare con il semplice fatto che le cose sono, che noi siamo, con il “miracolo dell’essere” in sé. In questa modalità di pensiero non solo siamo più consapevoli dell’esistenza, della mortalità e delle altre caratteristiche immutabili della vita, ma anche più pronti a operare cambiamenti significativi. Molti resoconti di cambiamenti significativi e durevoli originati da un confronto diretto con la morte sono una prova a sostegno di questa opinione. Secondo Yalom i catalizzatori principali per un’esperienza di risveglio sono eventi pressanti dell’esistenza, come il dolore per la perdita di qualcuno che si ama, una malattia che mette a rischio la vita, la rottura di una relazione intima, alcune pietre miliari della nostra esistenza come un compleanno importante (cinquanta, sessanta, settant’anni), traumi dovuti a eventi tragici quali un incendio o una violenza o una rapina, oppure il figli che lasciano la casa, la perdita di un lavoro, l’andare in pensione.
Molto spesso chi ha paura di morire manifesta i sintomi di ansia intensa al solo pensiero della morte. Paura intensa, tensione, tremolio, pianto, disperazione. Sono questi i sintomi più comuni per chi ha questo tipo di paura. Questo tipo di paura è molto più frequente nelle persone con ansia, depressione e ipocondria. Spesso questa forte paura ha alla base un significato più nascosto. Le cause sono da attribuire ad un ricordo o un trauma che ha messo in discussione il proprio rapporto con la morte. Per esempio si può sviluppare in persone che hanno perso un genitore durante l’infanzia.
Le paure più legate alla tanatologia in cui si manifesta eccessiva ansia sono: la paura di morire da un momento all’altro, la paura di morire di parto, la paura di morire di infarto, la paura di morire di notte, la paura di morire giovani o la paura di morire dopo un lutto.
Il trattamento più efficace per liberarsi della tanatofobia è senza ombra di dubbio la psicoterapia psicodinamica. La terapia psicologica, individuale o familiare, mira a comprendere le cause sottostanti la fobia e ad individuare i meccanismi di pensiero che innescano la reazione fobica e a sostituirli con schemi di pensiero e di comportamento più funzionali. Essa, inoltre, aiuta anche a capire come superare l'ansia ed affrontare la paura della morte.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo