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Uno psicologo, uno psicoterapeuta ed uno psichiatra entrano in un bar…

Il titolo ricorda molto quelle vecchie barzellette in cui tre persone molto diverse da loro per razza, o per nazionalità, o per altre caratteristiche peculiari della personalità, entrano in un bar e ognuna di loro risponde in modo molto diverso ad una situazione. Solitamente queste barzellette puntavano ad esaltare delle differenze che si rifacevano a qualche luogo comune.

Ho usato questo titolo perche solitamente le tre figure professionali del titolo sono anch’esse permeate e circondate da luoghi comuni, e spesso le si confonde tra loro con il risultato che chi ha bisogno di aiuto non sa bene a chi rivolgersi.

Proviamo a fare un po’ di chiarezza, iniziando dalla differenza tra i percorsi formativi e la natura della loro attività professionale.

Diventare Psicologo: Lo Psicologo è laureato in Psicologia, ha svolto un tirocinio professionale di un anno, ha superato l’Esame di Stato per l'abilitazione professionale e si è iscritto all’Albo professionale (Sezione A) dell’Ordine degli Psicologi. Senza l'iscrizione all'Albo (Sezione A) non si ha diritto ad utilizzare il titolo di “Psicologo”, ma soltanto quello di “Dottore in Psicologia”. Nel 2001 è nata la figura del “Dottore in Tecniche Psicologiche” che, a differenza dello Psicologo che ha una laurea quinquennale, ha conseguito una laurea di soli tre anni, ha effettuato un tirocinio di 6 mesi, ha superato l’Esame di Stato per l’abilitazione professionale e l’iscrizione all’Albo – Sezione B. Poiché il panorama formativo si sta facendo sempre più complesso, queste precisazioni sono doverose al fine di definire la figura dello Psicologo e distinguerla da figure professionali limitrofe. In ogni caso è possibile controllare l’iscrizione all’Albo di uno Psicologo consultando la sezione Albo Nazionale del sito del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi.

Diventare Psicoterapeuta: Il percorso formativo per diventare Psicoterapeuta è piuttosto lungo. Innanzi tutto occorre essere o Psicologo o Medico chirurgo, regolarmente iscritto al proprio Albo professionale. In secondo luogo occorre frequentare una scuola di specializzazione in psicoterapia della durata di almeno quattro anni riconosciuta dal Ministero dell'Istruzione dell'Università e della Ricerca.

Diventare Psichiatra: Lo Psichiatra ha una laurea in Medicina e Chirurgia e una specializzazione post-lauream in Psichiatria. Ovviamente anche lui fa riferimento al suo ordine professionale al quale si iscrive dopo la laurea e dopo aver sostenuto l’esame di stato.

Anche nella pratica clinica l’approccio di queste tre figure professionali può essere molto diverso.

Lo Psicologo svolge la propria attività professionale in settori molto diversi: nel settore clinico, occupandosi di disagio mentale, nel settore scolastico, promuovendo il benessere psicologico all’interno degli istituti scolastici, nel settore organizzativo, operando per migliorare il funzionamento di aziende e industrie, e nel settore accademico, svolgendo ricerca e insegnamento.
 Lo Psicologo clinico utilizza gli strumenti di valutazione, di prevenzione e di intervento sul disagio psichico appresi durante il corso di laurea. Lo Psicologo esegue una diagnosi utilizzando il colloquio e gli strumenti diagnostici, come ad esempio i questionari e i test di personalità. Fa azione di prevenzione e di intervento sul disagio psichico dei propri clienti promuovendo la consapevolezza dei propri modi di pensare, di sentire e di agire, rinforzando le capacità dei propri clienti di vivere in autonomia e benessere.

Le differenze nello svolgimento dell’attività professionale dello Psicologo clinico e dello Psicoterapeuta si basano sul fatto che lo Psicoterapeuta è l’unico abilitato a fare psicoterapia, ossia il trattamento finalizzato alla cura dei disturbi psicopatologici basato sull’interazione tra lo Psicoterapeuta e un paziente, una coppia, una famiglio o un gruppo. La definizione sembra netta e inequivocabile, ma in realtà vi è tutto un contenzioso in corso circa i limiti delle due professioni. Lo Psicologo è infatti legalmente abilitato a utilizzare strumenti di intervento per la riabilitazione in ambito psicologico, il che sembra essere molto simile all’attività psicoterapeutica.

Si dice comunemente che il lavoro dello Psicoterapeuta vada più in profondità del lavoro di consulenza di uno Psicologo. Questo non è necessariamente vero. A mio parere molto dipende dall’esperienza del professionista. In genere però, lo Psicoterapeuta è molto più preparato dello Psicologo in tema di psicopatologia e utilizza specifiche tecniche terapeutiche di intervento che ha appreso durante il suo lungo corso di specializzazione e che non possono essere utilizzate dagli Psicologi. A volte però il confine non è di facile individuazione.

Data la grande varietà di scuole di specializzazione, gli Psicoterapeuti possono operare con metodologie di lavoro e visioni dell’uomo molto diverse tra loro. Per questo motivo è importante farsi un’idea preventiva di come lo Psicoterapeuta lavora prima di intraprendere un percorso terapeutico. È sempre bene chiedere preventivamente al professionista cui ci si rivolge quale formazione ha svolto e quali titoli può utilizzare. Se il professionista non ha nulla da nascondere, sarà felice di dare le informazioni richieste.

Lo Psichiatra si occupa di disturbi mentali a carico del sistema fisico dell’essere umano. Lo Psicologo guarda agli aspetti emotivi, cognitivi e relazionali del disturbo mentale.

Le conseguenze sul lato pratico sono notevoli: lo Psichiatra richiede e valuta esami medici, prescrive farmaci generici e psicofarmaci. Lo Psicologo non prescrive farmaci, ma utilizza come strumenti di intervento il colloquio, la somministrazione di test, il sostegno empatico e - se è anche psicoterapeuta - le tecniche di intervento psicoterapeutiche.

Lo Psichiatra, che è innanzi tutto un medico, ha un rapporto col paziente di tipo medico-paziente ossia un rapporto asimmetrico in cui il paziente è la parte dipendente in stato di necessità, mentre il medico ha il ruolo del professionista competente che sa, guida e dà prescrizioni. Lo Psicologo punta invece sul rapporto paritetico col paziente, un rapporto individuo-individuo in cui sia presente innanzi tutto la fiducia, perché senza la fiducia nessun lavoro psicologico può essere portato avanti.
 
Lo Psichiatra tende a curare il disagio psichico andando a riequilibrare gli scompensi chimici che vengono a crearsi nel cervello di una persona sofferente. Ad esempio è stato rilevato che, in concomitanza di alcune forme di depressione, l’attività di un neurotrasmettitore chiamato serotonina – una sorta di messaggero dell’attività psichica – è meno intensa. Lo Psichiatra interviene su questo scompenso sul piano fisico, somministrando uno specifico farmaco per la psiche – uno psicofarmaco – che incrementa l’attività della serotonina. Il paziente sta meglio ma deve continuare ad utilizzare gli psicofarmaci.

Lo psicologo è cosciente degli squilibri chimici ma preferisce correggerli con un’altra strategia: vuole riattivare le risorse, la capacità di scelta, le emozioni positive del paziente in modo che stia meglio e sia in grado di riequilibrare da sé gli squilibri chimici del proprio cervello.
 
Talvolta queste professioni collaborano nel perseguire la salute di un dato paziente. In questi casi il disturbo viene affrontato in modo parallelo sia dal punto di vista psicologico sia dal punto di vista psichiatrico. Questo può avvenire quando un paziente presenta sintomi molto gravi che possono culminare nell’aggressione o nella distruzione di sé o di altre persone. In questi casi lo Psichiatra somministra una terapia farmacologica che limiti la distruttività del paziente, mentre lo Psicologo lavora per riattivare le risorse di crescita del paziente.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

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Cos'è lo Psicologo e cosa può fare dal punto di vista legale

Nel 1989 è stata emanata la legge n. 56 che ha definito e regolamentato la professione dello Psicologo, fino a quel momento presente sul mercato senza uno specifico riconoscimento legale.
 

Definizione della professione di Psicologo


L’articolo 1 della legge è il più importante in quanto definisce concretamente la professione dello Psicologo.
 
Riporto integralmente l’articolo:
"La professione di psicologo comprende l'uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito".
 
Vediamone i termini chiave:

  • Strumenti conoscitivi: sono i modelli concettuali con cui lo Psicologo interpreta i fatti che incontra nella sua professione: i comportamenti, le emozioni e i pensieri delle persone. I modelli concettuali sono vari e diversi e sono influenzati dalle scuole di pensiero cui lo Psicologo aderisce, ma sono estremamente utili.
     
  • Strumenti di intervento: a differenza dei Medici che intervengono mediante la terapia farmacologica e la chirurgia, gli Psicologi utilizzano strumenti di intervento basati sulla parola e sulla relazione, come ad esempio il colloquio, il sostegno empatico, il training autogeno, la formazione, l’ipnosi.
     
  • Prevenzione: l’attività volta a impedire la manifestazione, o a ridurre la probabilità di insorgenza, di una situazione problematica.
     
  • Diagnosi: lo Psicologo utilizza gli strumenti di valutazione, quali i test, i questionari e il colloquio clinico, per individuare la presenza di eventuali disturbi mentali.
     
  • Attività di abilitazione-riabilitazione: sono le attività terapeutiche che gli Psicologi mettono in atto per curare i disturbi mentali o per aiutare le persone che stanno attraversando dei momenti di difficoltà esistenziale. Con abilitazione si intende l’acquisizione di un’abilità mai posseduta prima, come ad esempio potrebbe essere il caso di una persona che si rivolge ad uno Psicologo perché non ha mai avuto rapporti di intimità con l’altro sesso e vuole acquisire la capacità di averne.
    Con riabilitazione si intende il recupero di una funzione compromessa, come potrebbe essere il caso di una persona che a seguito di un divorzio ha perso la capacità di avere rapporti di intimità con l’altro sesso.
     
  • Sostegno: sostenere non significa promuovere il cambiamento di una persona, ma aiutarla a mantenere l’impegno richiestogli dalle sfide della vita per conservare il suo attuale livello di salute. Lo Psicologo sostiene stimolando le persone a utilizzare le proprie capacità, come ad esempio sostenendo i familiari di un malato cronico affinché si attivino e facciano fronte alla situazione problematica in modo costruttivo.
     
  • Persona, gruppo, organismi sociali e comunità: lo Psicologo non si rivolge solo ai singoli, ma anche ai gruppi di persone – come ad esempio le coppie e le famiglie. Lavora anche con e negli organismi sociali – come le scuole, le aziende e gli ospedali – e le comunità – come le comunità psicoterapeutiche, le comunità per tossicodipendenti, le case di riposo per anziani.

 

Requisiti per l'esercizio dell'attività di Psicologo


L’articolo 2 stabilisce i requisiti per esercitare la professione dello Psicologo, che sono: essere laureato in Psicologia, aver svolto un tirocinio professionale, aver superato l’Esame di Stato ed essere iscritto nell’apposito Albo professionale.

 
Esercizio dell'attività psicoterapeutica


L’articolo 3 afferma che l’attività di psicoterapia può essere svolta solo dagli Psicologi o dai Medici che abbiano seguito un corso di specializzazione in psicoterapia di almeno quattro anni presso una scuola di specializzazione universitaria o presso istituti privati a tale fine riconosciuti.

 
Albo professionale
Gli articoli dal 4 al 28 riguardano l’istituzione e il funzionamento dell’Albo professionale e dell’Ordine degli Psicologi – che è l’organizzazione predisposta a mantenere l’Albo professionale. L’Ordine è strutturato in Consigli, sia a livello nazionale sia a livello regionale, che svolgono le attività pratiche di manutenzione dell’Albo: verificano i requisiti degli iscritti all’Albo, esaminano le nuove domande dei candidati, cancellano le iscrizioni quando occorre, infliggono le sanzioni disciplinari.

 
Professione sanitaria
La psicologia è una professione sanitaria, come ratificato dall’articolo 29 che recita: “Il Ministro della salute esercita l'alta vigilanza sull'Ordine nazionale degli psicologi”.
 
Il resto del testo di legge – gli articoli dal 30 al 36 –riguarda argomenti di minore importanza in materia di equipollenza dei titoli di laurea esteri e di procedure per l’avviamento dell’Albo e dei Consigli.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

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Nella nostra quotidianità, nelle nostre scelte e decisioni, all’interno delle nostre relazioni ogni giorno ci confrontiamo in modo più o meno consapevole con stereotipi sociali, pregiudizi, miti, errate convinzioni che inevitabilmente, pur di conformarci a dei canoni sociali, ci ingabbiano in modalità relazionali e scelte di vita non funzionali al nostro benessere. Quando si tratta di prendersi cura della propria salute fisica generalmente non ci adattiamo a particolari stereotipi per cui, se non stiamo bene, ci rivolgiamo al nostro medico di fiducia il quale ci farà fare degli esami di approfondimento oppure ci invierà ad uno specialista del settore. Le cose cambiano quando a stare male non è il nostro corpo ma la nostra psiche. Quando ci troviamo nella condizione di sottovalutare i nostri sintomi psicologici (stress, ansia, umore vacillante, manifestazioni psicosomatiche, difficoltà decisionali, conflitti relazionali, …) stiamo aderendo ad uno dei miti sopra citati.
Il basso tasso di persone che cercano cure psicologiche è da attribuire allo stigma e alle tante leggende metropolitane connesse alla figura dello psicoterapeuta e alla psicoterapia. Senza dubbio il cinema, la letteratura e la televisione per anni hanno contribuito alla creazione di queste false leggende. In questo articolo vorrei provare a riflettere su alcuni pregiudizi che negli anni si sono formati sulla psicoterapia psicoanalitica e che, facendo ormai parte del sapere comune, a volte sono molto difficili da superare e impediscono a molte persone di chiedere aiuto ad un professionista.

In psicoterapia ci vanno i “pazzi”: la scelta di percorrere un percorso di psicoterapia a mio avviso è una scelta per persone intelligenti che con coraggio scelgono di impegnarsi per migliorare la propria vita, individuare i propri obiettivi e raggiungerli. Come diceva Albert Einstein “follia è fare sempre la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi”.

La psicoterapia è costosa: la psicoterapia è un investimento su di sé. È molto più costoso, non solo in termini economici ma soprattutto in termini psichici non affrontare un problema piuttosto che affrontarlo. Ma vorrei chiarire questo punto con qualche esempio in modo da mettere in luce come una psicoterapia, grazie ai suoi effetti durevoli, possa fare risparmiare nel tempo risorse quali il denaro o altro, prevenendo dal fare scelte sbagliate. Pensiamo ad un uomo che, grazie ad un percorso psicoterapeutico, riesce a modificare alcuni suoi atteggiamenti che lo avrebbero portato a dover divorziare dalla moglie (non volendolo) e a doversi allontanare dai suoi figli; la psicoterapia in questo caso non solo permette a quest’uomo di vivere in modo pieno la famiglia, evitando disagi e traumi in tutti i componenti della famiglia stessa, ma evita anche tutta una serie di spese (avvocati, alimenti alla ex moglie, assegni di mantenimento ai figli) che inevitabilmente quest’uomo avrebbe dovuto sostenere. Oppure pensiamo a cosa può “guadagnare” chi, dopo un percorso di psicoterapia, riesce ad affrontare la vita senza essere paralizzato dall’ansia o da attacchi di panico in prossimità di occasioni importanti per il proprio futuro lavorativo, come ad esempio esami universitari o colloqui di lavoro, eventi davanti ai quali prima o si bloccava o metteva in atto dei comportamenti volti ad evitarli. Vista in questi termini la terapia ha un valore molto alto, che va oltre il denaro speso per investire su di sé.

La psicoterapia dura troppo tempo: anche questo è un pregiudizio antico collegato all’idea sbagliata che chi rimane a lungo in psicoterapia lo fa perché non ne trae beneficio. La verità è tutto l’opposto. Le persone, quando ne hanno l’opportunità, tendono a restare più a lungo in un trattamento analitico non perché non stanno ricevendo alcun aiuto, ma proprio perché lo stanno ricevendo.

Scavare il passato non sarà utile: riportare alla memoria cose complicate e dolorose vissute nel passato può, naturalmente, essere difficile. Farlo, assieme al terapeuta, permetterà di vedere questi eventi in un’ottica differente, al fine di avere una comprensione chiara del perché gli eventi passati influenzano le decisioni nel presente.

La terapia ti fa provare colpa e vergogna: gli psicoterapeuti tengono ai loro pazienti, sono senza pregiudizi, sono compassionevoli e comprensivi, il loro scopo primario é aiutare gli individui a  prendere da soli le loro decisioni. I sentimenti di colpa e vergogna già presenti sono senza dubbio esplorati all’interno di una psicoterapia, ma non sono di certo causati o fatti emergere intenzionalmente dal terapeuta.

Lo psicoterapeuta attribuisce tutti i problemi ai genitori o alle esperienze infantili: esplorare le proprie esperienze infantili e gli eventi significativi che hanno inciso sulla propria vita e su come ci siamo evoluti come persone è sicuramente una componente importante della psicoterapia. Informazioni che riguardano il proprio contesto familiare e gli eventi significativi di vita aiutano a capire il nostro modo di percepire e sentire. Portare la persona a guardarsi indietro è finalizzato a capire meglio il presente e questa comprensione e consapevolezza può essere punto di partenza per fare cambiamenti positivi per il futuro.

Gli psicologi semplicemente ascoltano e fanno sfogare, quindi perché pagare qualcuno solo perché ascolti?: all’inizio del percorso di terapia lo psicoterapeuta chiede di descrivere il problema che vi ha portato nel suo studio, ma l’ascolto è solo il punto di partenza. Potrà anche raccogliere informazioni rilevanti sulla vita passata, così come la storia dei problemi e di altre importanti aree della vita, ed i modi in cui si è cercato di affrontare i momenti difficili. La psicoterapia è tipicamente un processo interattivo e collaborativo, basato sul dialogo e sull’impegno attivo del paziente. Paziente e psicoterapeuta identificano insieme i problemi, le loro origini, impostano obiettivi, camminano fianco a fianco lungo il percorso terapeutico e monitorano i progressi.

Parlare con i familiari o con gli amici è efficace quanto andare dallo psicoterapeuta: il sostegno di familiari e amici è di fondamentale importanza quando si sta attraversando un periodo difficile. Ma quello che è in grado di offrire uno psicoterapeuta è molto di più. Gli psicoterapeuti hanno anni di istruzione specializzata, formazione ed esperienza che li rendono professionisti esperti nella comprensione e nel trattamento di problemi complessi. É quindi molto più di un “solo parlare e ascoltare”. Gli psicoterapeuti sono in grado di riconoscere modelli di pensiero e comportamento in modo oggettivo, che le persone più vicine a voi possono aver smesso di notare o di cui possono non essersi mai accorte. Inoltre lo psicoterapeuta può apparentemente offrire commenti o osservazioni simili a quelle che fanno le persone a voi vicine nella vita quotidiana, ma il loro aiuto può essere efficace per la tempistica con cui vengono fatte tali osservazioni, per la possibilità di mettere a fuoco il problema e le dinamiche connesse e per il vissuto di fiducia nella posizione neutrale del professionista. Un’altra importante considerazione da fare è che con il proprio psicoterapeuta è molto più facile parlare in libertà e in modo onesto perché la relazione professionale si fonda sulla riservatezza, per cui non si ha alcuna preoccupazione che qualcuno venga a sapere quello di cui si è discusso. Non è raro che le persone spesso raccontino ai loro psicoterapeuti cose che non si sono mai sentiti di rivelare a nessuno.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

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Imparare ad accettare la diagnosi di una malattia cronica come il diabete significa dover riorganizzare la propria vita (e quella di chi ci sta vicino) tenendo conto di un limite personale: questo processo può essere doloroso e richiede del tempo per elaborare la notizia e reagire alla malattia in modo attivo e consapevole.

L'atteggiamento del paziente verso il diabete è fondamentale e può fare la differenza. Più ci si informa, si inquadra bene la situazione, si è coinvolti attivamente per reagire e più si riuscirà a tenerlo sotto controllo, pur tra alti e bassi, momenti di sconforto e momenti in cui l'individuo si sentirà soddisfatto delle sue piccole conquiste quotidiane: è una sfida che vale la pena di accettare come investimento per la salute futura: tenere sotto controllo il diabete significa proteggersi dalle complicazioni, anche quando l’assenza di sintomi fa pensare il contrario.
Sono state osservate alcune fasi nel processo di accettazione attiva della condizione diabete: rifiuto, ribellione, compromesso, depressione, accettazione attiva. (Da notare che queste fasi sono le stesse riscontrate in tutte le malattie croniche come le cardiopatie o il cancro).

Spesso, all’esordio del diabete, ci sono lo shock e il diniego della nuova realtà. Ci si comporta, cioè, come se la sindrome non ci fosse e si nota un rifiuto della terapia.
Una seconda fase può essere quella di ribellione: “Perché doveva capitare proprio a me?” “Perché al mio bambino?” “Che cosa ho fatto di male?”.
La terza fase è quella di patteggiamento e accettazione parziale della realtà: si applicano alcuni suggerimenti terapeutici, altri no. È ancora in atto la tendenza a negare la condizione diabete e il non seguire una data prescrizione terapeutica costituisce un tentativo di fuga dalla realtà.

A questo punto può profilarsi una fase di depressione che spesso contiene contenuti di speranza. Questa fase può manifestarsi, sia con un atteggiamento di pessimismo, di sfiducia in sé, di isolamento, sia con atteggiamenti di irascibilità e di aggressività verso tutto e verso tutti.
È importante a questo punto un sostegno psicologico che può essere trovato all'interno della famiglia o anche in professionisti esterni che possono fornire, grazie ai gruppi di discussione, ad incontri di sostegno psicologico o psicoterapie, la liberalizzazione delle proprie ansie per lo più dovute a pregiudizi o a ignoranza.
In questa fase, infatti, i minimi particolari possono avere per la persona una importanza enorme: le parole del medico, degli infermieri, dei familiari assumono una notevole rilevanza e possono diventare motivo esagerato di speranza o di scoraggiamento.
L’ultima fase è quella dell’accettazione attiva del diabete che diventa il “mio diabete”, cioè un modo di vivere, uno stato di salute condizionato e non un concetto generico e minaccioso sul quale non si può esercitare alcun controllo.
Come risultato si ottiene un buon equilibrio metabolico e quindi una prevenzione delle complicanze, attraverso l’integrazione armonica con l’equipe curante e l’adeguamento al regime terapeutico che viene così inserito negli schemi di comportamento quotidiani.
Tale processo, sebbene indichi una crescita, è dinamico e non lineare, cioè non impone un passaggio da una fase all’altra nell’ordine in cui sono state descritte, né suggerisce che una volta arrivati alla fase di accettazione attiva non ci possano essere battute di arresto o ritorni a fasi precedenti.

È, quindi, molto importante partecipare ad attività di educazione sanitaria e sostegno psicologico, corsi di informazione e formazione, gruppi di discussione con altri che vivono la stessa condizione e altre iniziative per il miglioramento dell’immagine e dello status civile e sociale del diabetico, per una maggiore compliance terapeutica, per prevenire rischi e complicazioni.
Va posta una particolare attenzione ai casi in cui ad avere il diabete è un bambino. Il diabete mellito nelle sue varie forme è la più frequente malattia metabolica dell’età evolutiva. In tale fascia di età la forma più diffusa è quella di tipo 1 o insulino-dipendente (DMID).
Dal punto di vista psicologico la comunicazione della diagnosi rappresenta un momento difficile per il bambino e i suoi genitori, come anche la gestione quotidiana della malattia che provoca ansie nella famiglia sconvolgendo gli equilibri relazionali e affettivi preesistenti e comportando uno stravolgimento, almeno iniziale, delle abitudini quotidiane.

I risultati di alcune ricerche scientifiche indicano che i bambini con diabete di tipo 1 sono a rischio di problemi psicologici di adattamento durante le fasi iniziali della malattia. Le visite, i prelievi e le cure rappresentano esperienze che possono alterare la formazione della fiducia di base necessaria per la futura evoluzione dei soggetti diabetici. Per i genitori stessi, la fragilità del loro bambino e la sua immaturità affettiva rendono l’esordio della malattia drammatico.

A livello psicologico diverse sono le reazioni riscontrate nei bambini e nei loro genitori.

Ferita narcisistica: la malattia viene sentita come una minaccia. Il bambino malato e i suoi genitori vivono la malattia come un pericolo della propria integrità psico-fisica. La malattia rappresenta un’esperienza di perdita per i genitori e per il figlio, un attacco al senso di onnipotenza della madre nel soddisfare tutte le esigenze del bambino e, soprattutto, nel difenderlo dagli eventi negativi. Nei genitori si sviluppano forti sensi di colpa e responsabilità. Il potenziale disagio psichico è connesso anche con l’età del bambino al momento dell’insorgenza del diabete. La percezione della gravità e della cronicità della malattia è infatti connessa con lo sviluppo psicologico e fisico del bambino stesso.

Reazione depressiva: ansia e senso di impossibilità di azione e conseguente inadeguatezza. Queste reazioni sono più facilmente osservabili nei genitori. Spesso essi si vergognano inconsapevolmente della condizione di malattia del figlio, sentono le limitazioni di vita connesse con il decorso della malattia cronica, amplificano le possibili complicanze future del diabete. Nei bambini, invece, si possono osservare un calo della prestazione scolastica, una maggiore irritabilità generalizzata, oppure l’insorgere di atteggiamenti regressivi nei confronti dei genitori e una richiesta di iperprotettività.

Atteggiamento di rifiuto e negazione: tale atteggiamento, molto pericoloso, consiste nel negare o banalizzare la malattia.

Atteggiamento dipendente: il bambino dipende dai genitori in tutto, quindi anche nella gestione della sua malattia. Intorno ai 10 anni, invece, può diventare autonomo nel controllo e assunzione della terapia e i genitori ricoprono semplicemente il ruolo di supervisori. Se però i genitori sono iperprotettivi, non sostenendo il figlio a raggiungere l’autonomia, si creerà un rapporto di totale dipendenza e passività del soggetto malato in tutti gli ambiti di vita e non solo in relazione alla malattia stessa.

Atteggiamento perfezionista e ossessivo: consiste in un atteggiamento eccessivamente preciso, ordinato, scrupoloso nel seguire le indicazioni terapeutiche. Il diabete viene curato in modo ossessivo, non lasciando niente al caso.

Il vissuto di malattia del bambino è strettamente condizionato da quello di familiari, genitori e parenti.
L'atteggiamento iperprotettivo dei genitori verso il figlio diabetico costituisce un fattore aggravante per il normale sviluppo psicologico del bambino: esso provoca spesso una condizione di immaturità affettiva e un difficile raggiungimento dell’autonomia dalle figure genitoriali e del sentimento d’identità personale.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

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