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I meccanismi di difesa sono delle particolari funzioni che hanno come scopo quello di proteggerci dal provare sentimenti ritenuti intollerabili.

In un articolo precedente ho illustrato i meccanismi di difesa primari, quelle difese che implicano il confine tra il mondo esterno e il Sé. In questo articolo presenterò i meccanismi di difesa secondari, di ordine superiore, che hanno a che vedere con i confini interni tra la parte di noi che vive l’esperienza e quella capace di osservare. Mentre le difese primitive operano in modo globale fondendo dimensioni cognitive, affettive e comportamentali, le difese più evolute operano trasformazioni specifiche del pensiero, del sentimento, della sensazione, del comportamento, o di una loro qualche combinazione. Come già sottolineato nel precedente articolo, tutti noi utilizziamo i meccanismi di difesa, sia primari che secondari. I problemi sorgono quando utilizziamo solo e sempre uno o due meccanismi di difesa a prescindere dalla situazione che ci si presenta.

  • La rimozione: l’essenza della rimozione è un dimenticare o ignorare motivato. Freud, a proposito della rimozione, scriveva che: “la sua essenza consiste semplicemente nell’espellere e nel tener lontano qualcosa dalla coscienza”. Questo processo è applicabile a un’esperienza nella sua globalità, alle emozioni ad essa connesse, o alle fantasie e desideri che vi sono associati. La rimozione ha una natura fondamentalmente adattiva. Se fossimo costantemente coscienti di tutta la gamma dei nostri impulsi, sentimenti, ricordi, immagini e conflitti, saremmo cronicamente sopraffatti. Come le altre difese inconsce la rimozione diventa problematica solo nei casi in cui: a) fallisce nella sua funzione, b) elimina alcuni aspetti positivi della vita, c) agisce ad esclusione di altri modi più efficaci. Un ricorso eccessivo alla rimozione, unitamente ad altri processi difensivi che spesso coesistono con essa, viene generalmente considerato il segno distintivo della personalità isterica.
  • La regressione: è un meccanismo di difesa relativamente semplice, noto a ogni genitore che abbia osservato un bambino ricadere in comportamenti propri di uno stadio evolutivo precedente quando è stanco o affamato. C’è una tendenza naturale degli esseri umani ad aggrapparsi a ciò che è loro familiare dopo aver raggiunto qualche nuovo livello di competenza. Perché sia qualificabile come meccanismo di difesa questo processo deve essere inconscio. Alcune persone usano la difesa della regressione più di altre. Ad esempio, alcuni di noi reagiscono alle tensioni della crescita e del cambiamento ammalandosi, oppure si mettono a letto perche stanno male pur non avendo una malattia diagnosticabile. Questo processo non è mai cosciente e può provocare angoscia sia alla persona regredita sia a coloro che le stanno intorno. Questa variante della regressione è nota come somatizzazione. Alcune persone ipocondriache usano la regressione al ruolo di malato come mezzo primario per affrontare gli aspetti problematici della loro vita. Quando la regressione costituisce la strategia centrale dell’individuo verso le sfide dell’esistenza, possiamo parlare di una personalità infantile.
  • L’isolamento: un modo in cui le persone possono gestire l’angoscia e altri stati mentali dolorosi consiste nell’isolare il sentimento dalla conoscenza. L’isolamento delle emozioni può avere un grande valore: i chirurghi non potrebbero lavorare efficacemente se fossero costantemente sintonizzati sulla sofferenza fisica dei pazienti o sulla propria reazione di disagio, repulsione o sadismo, quando affondano il bisturi nella carne di qualcuno. Quando l’isolamento è la difesa primaria e il modello di vita riflette la sopravvalutazione del pensiero e la sottovalutazione del sentimento, la struttura del carattere è di tipo ossessivo.
  • L’intellettualizzazione: è il nome attribuito a una versione di ordine superiore dell’isolamento dell’affetto dall’intelletto. La persona che utilizza l’isolamento riferisce in genere di non provare sentimenti, mentre quella che intellettualizza parla dei sentimenti in una maniera che l’ascoltatore percepisce come anaffettiva. Sesso, umorismo, espressione artistica e altre forme adulte di gioco gratificante rischiano di essere eliminate nella persona che ha imparato a dipendere dall’intellettualizzazione per affrontare la vita.
  • La razionalizzazione: questa difesa è talmente familiare da non aver quasi bisogno di spiegazioni. La razionalizzazione entra in gioco sia quando non riusciamo a ottenere qualcosa che vogliamo e retrospettivamente concludiamo che non era poi così desiderabile (come nella favola di Esopo della volpe e l’uva), sia quando accade qualcosa di spiacevole e decidiamo che, in fin dei conti, non era poi così grave. Quanto più una persona è intelligente e creativa, tanto più è probabile che sia abile nelle razionalizzazioni. La difesa agisce in modo benigno quando consente di svolgere al meglio una situazione difficile con il minimo danno, ma il suo inconveniente come strategia difensiva è che praticamente ogni cosa può essere razionalizzata. Le persone raramente ammettono di fare qualcosa solo per il piacere di farlo; preferiscono circondare le proprie decisioni con tutta una serie di buone ragioni: un esempio classico è il genitore che picchia il bambino e razionalizza la propria aggressività affermando che era “per il suo bene”.
  • La moralizzazione: è una parente prossima della razionalizzazione. Quando una persona razionalizza, cerca inconsciamente delle basi cognitivamente accettabili per la direzione ha preso; quando moralizza, cerca di pensare che sia doveroso seguire quella linea. Potremmo fare infiniti esempi storici di casi in cui questa difesa ha fatto leva sulle masse portando a capitoli tragici della nostra storia: i colonizzatori erano convinti di portare standard di civiltà più elevati nei popoli di cui saccheggiavano le risorse, Hitler riuscì a persuadere un numero sbalorditivo di seguaci che lo sterminio degli ebrei era necessario per il miglioramento etico della razza umana, e l’inquisizione spagnola è un altro movimento sociale di cui oggi ben si conosce la moralizzazione dell’aggressività, della cupidigia e dei desideri di onnipotenza.
  • La compartimentalizzazione: è un’altra delle difese intellettuali. La sua funzione è permettere a due condizioni in conflitto di esistere senza creare confusione, sensi di colpa, vergogna o angoscia sul piano cosciente. Quando questa difesa è all’opera, l’individuo abbraccia due o più idee, atteggiamenti o comportamenti che sono essenzialmente e per definizione in conflitto, senza coglierne la contraddizione. Per un osservatore non orientato psicologicamente, la compartimentalizzazione è indistinguibile dall’ipocrisia. Sul versante normale possiamo trovare, ad esempio, quelle persone che criticano i pregiudizi ma si divertono con battute razziste. All’estremità più patologica si trovano persone che sono molto umanitarie nella sfera pubblica e che, invece, nel privato delle proprie case difendono la violenza sui figli. Solitamente, messa davanti al proprio comportamento ambiguo, la persona che usa la compartimentalizzazione eliminerà le contraddizioni ricorrendo all’uso della razionalizzazione.
  • L’annullamento: lo sforzo inconscio di controbilanciare un affetto, solitamente un senso di colpa o la vergogna, con un atteggiamento o comportamento che magicamente lo cancelli (esempio: il marito che torna a casa con un regalo per la moglie per compensare lo scatto di nervi avuto la sera precedente). Quando l’annullamento è la difesa principale nel repertorio dell’individuo, e quando atti che hanno il significato inconscio di espiazione di crimini passati compromettono il principale sostegno dell’autostima, riteniamo che si tratti di personalità compulsiva.
  • Lo spostamento: il termine si riferisce al fatto che una pulsione, emozione, preoccupazione o comportamento venga diretto dal suo oggetto iniziale o naturale verso un altro, poiché la direzione originaria per qualche ragione provoca ansia. La classica vignetta dell’uomo strapazzato dal principale, che torna a casa e inveisce contro la moglie, che a sua volta sgrida i ragazzi che prendono a calci il cane, è un vero e proprio studio sullo spostamento. L’angoscia può essere spostata, e quando una persona sposta la propria angoscia da qualche area a un oggetto specifico che simbolizza il fenomeno temuto, diciamo che ha una fobia. Se una persona ha tutta una serie di preoccupazioni e paure spostate su svariati aspetti della propria vita, diciamo che ha un carattere fobico.
  • La formazione reattiva: l’organismo umano è capace di trasformare qualcosa nel suo polo opposto per renderlo meno minaccioso. La definizione tradizionale di formazione reattiva implica questa conversione di un affetto negativo in positivo o viceversa. La trasformazione, per esempio, dell’odio in amore, del desiderio in disprezzo o dell’invidia in attrazione, è facilmente riconoscibile in molte interazioni comuni. Un esempio comune è il caso di quei bambini di tre o quattro anni che, soppiantati da un fratellino più piccolo, gestiscono la propria rabbia e gelosia inconsce trasformandole in un sentimento conscio di amore verso il neonato. Ma è tipico di questa difesa che qualcosa del sentimento ripudiato penetri nella difesa al punto che chi osserva percepisce che c’è qualcosa di falso o di eccessivo. Quindi la bambina dell’esempio abbraccerà il fratellino troppo forte, o gli canterà delle canzoncine a voce troppo alta, o ancora lo dondolerà troppo aggressivamente.
  • L’identificazione: gli analisti usano questo termine per indicare l’operazione deliberata, a un livello maturo, anche se ancora parzialmente inconscia, di diventare come un’altra persona. L’identificazione è un processo essenzialmente neutrale; può avere effetti positivi o negativi a seconda di chi sia l’oggetto dell’identificazione. Il desiderio degli adolescenti di trovare eroi da poter emulare, nel tentativo di affrontare le richieste complesse della vita adulta cui si stanno appena affacciando, è noto da secoli. La capacità degli esseri umani di identificarsi con nuovi oggetti d’amore è probabilmente il veicolo principale attraverso cui le persone guariscono dalla sofferenza emotiva, ed è anche lo strumento primario con cui qualsiasi tipo di psicoterapia ottiene il cambiamento.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

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I meccanismi di difesa sono delle particolari funzioni che hanno come scopo quello di proteggerci dal provare sentimenti ritenuti intollerabili.
Le principali categorie diagnostiche utilizzate dagli psicoterapeuti ad orientamento dinamico per definire i tipi di personalità si riferiscono implicitamente all’azione persistente nell’individuo di una difesa o costellazione di difese. Un’etichetta diagnostica è dunque una sorta di abbreviazione che indica il modello difensivo abituale di una persona.
Quelle che negli adulti maturi finiamo col chiamare difese si strutturano inizialmente come modi globali, inevitabili, sani e del tutto adattivi di percepire il mondo. Freud fu il primo a osservare e definire tali processi e la scelta del termine “difesa” riflette almeno due aspetti del suo pensiero. In primo luogo Freud era appassionato di metafore militari. In secondo luogo quando si imbatté per la prima volta negli esempi più vistosi e memorabili di quelle che oggi chiamiamo difese, osservò l’attività di questi processi nella loro funzione difensiva. Le persone facevano di tutto per evitare di rivivere quello che temevano sarebbe stato un dolore insopportabile.
Sfortunatamente l’idea che le difese fossero in qualche modo qualcosa di negativo, per natura disadattive, si diffuse tra il pubblico profano al punto che definire qualcuno “difensivo” è universalmente inteso come una critica.
In realtà i fenomeni a cui ci riferiamo come difese hanno molte funzioni positive. Si manifestano come adattamenti sani e creativi e continuano a operare in senso adattivo per tutta la vita. La persona che si comporta in modo difensivo in genere cerca inconsciamente di ottenere uno o entrambi i seguenti obiettivi:
1) evitare o comunque gestire qualche sentimento intenso e minaccioso, di solito l’ansia e l’angoscia;
2) mantenere l’autostima.

Tutti noi abbiamo alcune difese preferenziali che sono diventate parte integrante del nostro stile individuale di confronto con le dimensioni problematiche. Questo ricorso preferenziale e automatico a una particolare difesa o serie di difese è il risultato di un’interazione complessa tra almeno quattro fattori:
1) il temperamento costituzionale;
2) la natura dei disagi subiti nella prima infanzia;
3) le difese presentate dai genitori o da altre figure significative;
4) le conseguenze sperimentate dell’uso di particolari difese.

Convenzionalmente gli autori psicoanalitici tendono a distinguere tra difese primarie e secondarie. Le difese primarie, o primitive, sono quelle che implicano il confine tra il mondo esterno e il Sé, mentre le difese più evolute, quelle definite secondarie, di ordine superiore, hanno a che vedere con i confini interni tra la parte di noi che vive l’esperienza e quella capace di osservare. Tutti noi utilizziamo i meccanismi di difesa, sia primari che secondari. I problemi sorgono quando utilizziamo solo e sempre uno o due meccanismi di difesa a prescindere dalla situazione che ci si presenta.

Di seguito illustrerò i processi difensivi primari. Ci si renderà presto conto che le difese primitive sono semplicemente i modi in cui noi riteniamo che il bambino piccolo percepisca naturalmente il mondo.

I processi difensivi primari sono:

  • Il ritiro primitivo: il bambino sovrastimolato o preda di forti tensioni spesso semplicemente si addormenta. Versioni adulte dello stesso processo sono osservabili in persone che si sottraggono a situazioni sociali o interpersonali, sostituendo lo stimolo del proprio mondo fantastico interiore alle tensioni della relazione con gli altri. Quando in una persona il ritiro diventa abituale e porta all’esclusione di altri modi di rispondere all’angoscia, gli analisti parlano di persona schizoide.
  • Il diniego: un altro modo precoce in cui il bambino affronta le esperienze spiacevoli è rifiutare che accadono. Il diniego continua ad operare automaticamente in ognuno di noi come prima reazione a qualunque avvenimento catastrofico. L’esempio più ovvio di psicopatologia definita dall’uso del diniego è la maniacalità. In uno stato maniacale le persone possono denegare in misura sorprendente le proprie limitazioni fisiche, la necessità di dormire, le emergenze finanziarie, le debolezze personali, persino la propria mortalità.
  • Il controllo onnipotente: per il neonato la fonte di tutti gli eventi è interna. La consapevolezza dell’esistenza di un centro di controllo in altri separati, esterni al Sé, non si è ancora sviluppata. Alcuni residui sani del senso di onnipotenza infantile rimangono in tutti noi e contribuiscono a farci sentire competenti ed efficaci nella vita. Alcune persone però hanno un bisogno irresistibile di provare un senso di controllo onnipotente e di interpretare le esperienze come frutto del proprio illimitato potere. Se la personalità di un individuo è organizzata intorno alla ricerca di questa gratificante sensazione di esercitare la propria onnipotenza, mentre ogni altra preoccupazione pratica ed etica ha un’importanza solo secondaria, si può parlare di personalità psicopatica.
  • L’idealizzazione e la svalutazione: conosciamo tutti l’intensità con cui un bambino piccolo ha bisogno di credere che i genitori siano in grado di proteggerlo da tutti i pericoli della vita. Un modo in cui i più piccoli si proteggono da paure soverchianti è credere nella sorveglianza di un’autorità benevola e onnipotente. Tutti noi usiamo l’idealizzazione, ma in certe persone il bisogno di idealizzare rimane immodificato dall’infanzia. Quando una persona sembra vivere la propria vita cercando di classificare ogni aspetto della condizione umana secondo il suo valore rispetto ad alternative meno favorevoli e sembra motivata dalla ricerca della perfezione, sia attraverso la fusione con oggetti idealizzati sia sforzandosi di perfezionare se stessa, si ritiene che si tratti di una persona narcisista. La svalutazione non è altro che l’inevitabile opposto del bisogno di idealizzare. Dato che nella natura umana non c’è nulla di perfetto, le modalità arcaiche di idealizzazione sono condannate alla delusione. Quanto più un oggetto è idealizzato, tanto più radicare sarà la svalutazione cui andrà incontro.
  • La proiezione e l’introiezione: rappresentano i lati opposti della stessa moneta. La proiezione è quel processo per cui qualcosa di interno viene considerato proveniente dall’esterno. Nella sua forma sana è la base dell’empatia. Nelle sue forme sfavorevoli invece la proiezione provoca numerosi fraintendimenti e immensi danni interpersonali. Quando gli atteggiamenti proiettati distorcono gravemente il loro bersaglio o quando ciò che viene proiettato consiste in parti altamente negative di sé stessi, insorgono moltissime difficoltà. Quando una persona usa la proiezione come modalità principale di comprendere il mondo e affrontare la vita, possiamo dire che ha un carattere paranoide. L’introiezione è il processo per cui si considera proveniente dall’interno qualcosa che in realtà è esterno. Nelle sue forme problematiche l’introiezione è un processo molto distruttivo che sta alla base del lutto e della depressione. Quando amiamo o siamo profondamente attaccati a delle persone, noi le introiettiamo e le loro rappresentazioni dentro di noi diventano parte della nostra identità. Se perdiamo una delle persone di cui abbiamo interiorizzato l’immagine, non soltanto percepiamo un impoverimento del nostro ambiente per l’assenza di quella persona nella nostra vita, ma sentiamo che anche noi siamo in qualche modo sminuiti, che una parte del nostro Sé è morta. La fusione di processi di proiezione e di introiezione viene chiamata identificazione proiettiva.
  • La scissione dell’Io: nei bambini di 2 anni possiamo osservare un bisogno di organizzare le percezioni assegnando valenze buone e cattive a tutto ciò che appartiene al loro mondo. Nella vita adulta di tutti i giorni, la scissione rimante una modalità potente e affascinante per spiegarsi esperienze complesse, specialmente quando sono ambigue e minacciose. La pericolosità di tale processo sta nel fatto che implica sempre una distorsione della realtà. La scissione è evidente quando un individuo esprime un atteggiamento non ambivalente e considera del tutto irrilevante il lato opposto.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

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Nella nostra quotidianità, nelle nostre scelte e decisioni, all’interno delle nostre relazioni ogni giorno ci confrontiamo in modo più o meno consapevole con stereotipi sociali, pregiudizi, miti, errate convinzioni che inevitabilmente, pur di conformarci a dei canoni sociali, ci ingabbiano in modalità relazionali e scelte di vita non funzionali al nostro benessere. Quando si tratta di prendersi cura della propria salute fisica generalmente non ci adattiamo a particolari stereotipi per cui, se non stiamo bene, ci rivolgiamo al nostro medico di fiducia il quale ci farà fare degli esami di approfondimento oppure ci invierà ad uno specialista del settore. Le cose cambiano quando a stare male non è il nostro corpo ma la nostra psiche. Quando ci troviamo nella condizione di sottovalutare i nostri sintomi psicologici (stress, ansia, umore vacillante, manifestazioni psicosomatiche, difficoltà decisionali, conflitti relazionali, …) stiamo aderendo ad uno dei miti sopra citati.
Il basso tasso di persone che cercano cure psicologiche è da attribuire allo stigma e alle tante leggende metropolitane connesse alla figura dello psicoterapeuta e alla psicoterapia. Senza dubbio il cinema, la letteratura e la televisione per anni hanno contribuito alla creazione di queste false leggende. In questo articolo vorrei provare a riflettere su alcuni pregiudizi che negli anni si sono formati sulla psicoterapia psicoanalitica e che, facendo ormai parte del sapere comune, a volte sono molto difficili da superare e impediscono a molte persone di chiedere aiuto ad un professionista.

In psicoterapia ci vanno i “pazzi”: la scelta di percorrere un percorso di psicoterapia a mio avviso è una scelta per persone intelligenti che con coraggio scelgono di impegnarsi per migliorare la propria vita, individuare i propri obiettivi e raggiungerli. Come diceva Albert Einstein “follia è fare sempre la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi”.

La psicoterapia è costosa: la psicoterapia è un investimento su di sé. È molto più costoso, non solo in termini economici ma soprattutto in termini psichici non affrontare un problema piuttosto che affrontarlo. Ma vorrei chiarire questo punto con qualche esempio in modo da mettere in luce come una psicoterapia, grazie ai suoi effetti durevoli, possa fare risparmiare nel tempo risorse quali il denaro o altro, prevenendo dal fare scelte sbagliate. Pensiamo ad un uomo che, grazie ad un percorso psicoterapeutico, riesce a modificare alcuni suoi atteggiamenti che lo avrebbero portato a dover divorziare dalla moglie (non volendolo) e a doversi allontanare dai suoi figli; la psicoterapia in questo caso non solo permette a quest’uomo di vivere in modo pieno la famiglia, evitando disagi e traumi in tutti i componenti della famiglia stessa, ma evita anche tutta una serie di spese (avvocati, alimenti alla ex moglie, assegni di mantenimento ai figli) che inevitabilmente quest’uomo avrebbe dovuto sostenere. Oppure pensiamo a cosa può “guadagnare” chi, dopo un percorso di psicoterapia, riesce ad affrontare la vita senza essere paralizzato dall’ansia o da attacchi di panico in prossimità di occasioni importanti per il proprio futuro lavorativo, come ad esempio esami universitari o colloqui di lavoro, eventi davanti ai quali prima o si bloccava o metteva in atto dei comportamenti volti ad evitarli. Vista in questi termini la terapia ha un valore molto alto, che va oltre il denaro speso per investire su di sé.

La psicoterapia dura troppo tempo: anche questo è un pregiudizio antico collegato all’idea sbagliata che chi rimane a lungo in psicoterapia lo fa perché non ne trae beneficio. La verità è tutto l’opposto. Le persone, quando ne hanno l’opportunità, tendono a restare più a lungo in un trattamento analitico non perché non stanno ricevendo alcun aiuto, ma proprio perché lo stanno ricevendo.

Scavare il passato non sarà utile: riportare alla memoria cose complicate e dolorose vissute nel passato può, naturalmente, essere difficile. Farlo, assieme al terapeuta, permetterà di vedere questi eventi in un’ottica differente, al fine di avere una comprensione chiara del perché gli eventi passati influenzano le decisioni nel presente.

La terapia ti fa provare colpa e vergogna: gli psicoterapeuti tengono ai loro pazienti, sono senza pregiudizi, sono compassionevoli e comprensivi, il loro scopo primario é aiutare gli individui a  prendere da soli le loro decisioni. I sentimenti di colpa e vergogna già presenti sono senza dubbio esplorati all’interno di una psicoterapia, ma non sono di certo causati o fatti emergere intenzionalmente dal terapeuta.

Lo psicoterapeuta attribuisce tutti i problemi ai genitori o alle esperienze infantili: esplorare le proprie esperienze infantili e gli eventi significativi che hanno inciso sulla propria vita e su come ci siamo evoluti come persone è sicuramente una componente importante della psicoterapia. Informazioni che riguardano il proprio contesto familiare e gli eventi significativi di vita aiutano a capire il nostro modo di percepire e sentire. Portare la persona a guardarsi indietro è finalizzato a capire meglio il presente e questa comprensione e consapevolezza può essere punto di partenza per fare cambiamenti positivi per il futuro.

Gli psicologi semplicemente ascoltano e fanno sfogare, quindi perché pagare qualcuno solo perché ascolti?: all’inizio del percorso di terapia lo psicoterapeuta chiede di descrivere il problema che vi ha portato nel suo studio, ma l’ascolto è solo il punto di partenza. Potrà anche raccogliere informazioni rilevanti sulla vita passata, così come la storia dei problemi e di altre importanti aree della vita, ed i modi in cui si è cercato di affrontare i momenti difficili. La psicoterapia è tipicamente un processo interattivo e collaborativo, basato sul dialogo e sull’impegno attivo del paziente. Paziente e psicoterapeuta identificano insieme i problemi, le loro origini, impostano obiettivi, camminano fianco a fianco lungo il percorso terapeutico e monitorano i progressi.

Parlare con i familiari o con gli amici è efficace quanto andare dallo psicoterapeuta: il sostegno di familiari e amici è di fondamentale importanza quando si sta attraversando un periodo difficile. Ma quello che è in grado di offrire uno psicoterapeuta è molto di più. Gli psicoterapeuti hanno anni di istruzione specializzata, formazione ed esperienza che li rendono professionisti esperti nella comprensione e nel trattamento di problemi complessi. É quindi molto più di un “solo parlare e ascoltare”. Gli psicoterapeuti sono in grado di riconoscere modelli di pensiero e comportamento in modo oggettivo, che le persone più vicine a voi possono aver smesso di notare o di cui possono non essersi mai accorte. Inoltre lo psicoterapeuta può apparentemente offrire commenti o osservazioni simili a quelle che fanno le persone a voi vicine nella vita quotidiana, ma il loro aiuto può essere efficace per la tempistica con cui vengono fatte tali osservazioni, per la possibilità di mettere a fuoco il problema e le dinamiche connesse e per il vissuto di fiducia nella posizione neutrale del professionista. Un’altra importante considerazione da fare è che con il proprio psicoterapeuta è molto più facile parlare in libertà e in modo onesto perché la relazione professionale si fonda sulla riservatezza, per cui non si ha alcuna preoccupazione che qualcuno venga a sapere quello di cui si è discusso. Non è raro che le persone spesso raccontino ai loro psicoterapeuti cose che non si sono mai sentiti di rivelare a nessuno.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

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Non è facile vivere ogni istante completamente consapevoli di dover morire. È come cercare di fissare direttamente il sole: si riesce a sopportarlo per poco.

La parola tanatofobia deriva dal greco thanatos che significa morte, e phobos che significa paura, letteralmente “paura della morte”. La tanatofobia, colpisce milioni di persone in tutto il mondo. In alcuni individui può generare ansia e/o pensieri ossessivi. Più precisamente, la tanatofobia è la paura della morte e/o della propria mortalità, mentre la paura delle persone che muoiono o delle cose morte è conosciuta come "necrofobia", che è un concetto leggermente diverso. La nostra esistenza è sempre adombrata dalla consapevolezza che cresceremo, giungeremo a maturazione finché, inevitabilmente, avvizziremo e moriremo.
Per alcuni la paura della morte si manifesta solo in modo indiretto, vuoi come un’inquietudine generalizzata o mascherata sotto le sembianze di un diverso sintomo psicologico; altri individui sperimentano un flusso esplicito e cosciente di angoscia nei confronti della morte; e per altri ancora la paura della morte si manifesta nell’esplosione di un terrore che impedisce qualsiasi felicità e realizzazione.

L’angoscia riguardo alla morte aumenta e diminuisce durante il ciclo vitale. I bambini fin da piccoli non possono fare a meno di notare il manifestarsi intermittente della mortalità che li circonda (foglie, insetti e animali domestici morti, nonni che scompaiono). Poi, dai sei anni fino alla pubertà la paura della morte solitamente rimane in secondo piano per erompere con tutta la sua forza durante l’adolescenza. Gli adolescenti spesso sono assillati dalla morte e alcuni di loro prendono in considerazione l’idea del suicidio. Molti giovani di quell’età possono rispondere all’angoscia di morte diventando maestri e dispensatori di morte nella vita virtuale, grazie ai videogiochi. Altri sfidano la morte con umorismo macabro e canzoni in cui viene schernita, o guardando film horror con gli amici. Altri adolescenti sfidano la morte affrontando rischi temerari. Con il passare degli anni le preoccupazioni adolescenziali nei confronti della morte vengono spinte da parte dai due compiti principali dell’esistenza di un giovane adulto: dedicarsi alla carriera e mettere su famiglia. Tre decadi più tardi, quando i figli si allontanano da casa e ci si avvicina alla pensione, si viene assaliti dalla crisi di mezza età e l’angoscia della morte erompe con tutta la sua forza.

Sin dall’alba dei tempi la morte ha avuto un ruolo centrale nelle dottrine religiose e nel pensiero filosofico. Secondo Epicuro, filosofo greco nato nel 341 a.C., c’era un solo obiettivo adeguato per la filosofia: alleviare la miseria umana causata dalla nostra onnipresente paura della morte. Secondo questo filosofo, il cui nome è legato alla corrente di pensiero dell’epicureismo, la visione spaventosa della morte interferiva con il godimento della vita e intaccava ogni forma di piacere. Fa parte del genio di Epicuro aver anticipato la visione contemporanea dell’inconscio: fu lui a evidenziare infatti che le preoccupazioni di morte non sono consapevoli per la maggior parte degli individui, ma devono essere dedotte da manifestazioni sotto mentite spoglie. Epicuro formulò una serie di argomentazioni per tentare di alleviare l’angoscia della morte. Ne propongo tre, a mio avviso preziose all’interno di un lavoro di psicoterapia.
La prima argomentazione è quella della mortalità dell’anima. Secondo Epicuro l’anima è mortale e perisce assieme al corpo. Se siamo mortali e l’anima non ci sopravvive, allora non abbiamo nulla da temere, non avremo coscienza né rimpianti.
Nella seconda argomentazione Epicuro ipotizza che la morte per noi non sia nulla, in quanto l’anima è mortale e si disperde con la morte. Quel che è disperso non percepisce, e qualsiasi cosa non percepita per noi è il nulla. In altre parole: dove sono io, non è la morte, dove è la morte non sono io. Epicuro affermava: perché temere la morte se noi non la possiamo mai percepire?

La terza argomentazione di Epicuro sostiene che la nostra condizione di non essere dopo la morte è la stessa nella quale ci trovavamo prima della nascita. Credo sia confortante pensare che le due condizioni del non essere, il tempo che precede la nostra nascita e quello che segue la nostra morte, siano identiche e che noi abbiamo tanta paura della seconda e così poca preoccupazione riguardo alla prima.

Il dover affrontare l’idea della morte non porta necessariamente alla disperazione e non priva la vita di qualsiasi scopo. Al contrario può essere una consapevolezza che conduce ad una vita più piena. Secondo Irvin D. Yalom, psichiatra e psicoterapeuta americano di fama mondiale, anche se la fisicità della morte ci distrugge, l’idea della morte ci salva. Secondo l’autore alcune esperienze, che lui chiama esperienze di risveglio, ci fanno sintonizzare con il semplice fatto che le cose sono, che noi siamo, con il “miracolo dell’essere” in sé. In questa modalità di pensiero non solo siamo più consapevoli dell’esistenza, della mortalità e delle altre caratteristiche immutabili della vita, ma anche più pronti a operare cambiamenti significativi. Molti resoconti di cambiamenti significativi e durevoli originati da un confronto diretto con la morte sono una prova a sostegno di questa opinione. Secondo Yalom i catalizzatori principali per un’esperienza di risveglio sono eventi pressanti dell’esistenza, come il dolore per la perdita di qualcuno che si ama, una malattia che mette a rischio la vita, la rottura di una relazione intima, alcune pietre miliari della nostra esistenza come un compleanno importante (cinquanta, sessanta, settant’anni), traumi dovuti a eventi tragici quali un incendio o una violenza o una rapina, oppure il figli che lasciano la casa, la perdita di un lavoro, l’andare in pensione.

Molto spesso chi ha paura di morire manifesta i sintomi di ansia intensa al solo pensiero della morte. Paura intensa, tensione, tremolio, pianto, disperazione. Sono questi i sintomi più comuni per chi ha questo tipo di paura. Questo tipo di paura è molto più frequente nelle persone con ansia, depressione e ipocondria. Spesso questa forte paura ha alla base un significato più nascosto. Le cause sono da attribuire ad  un ricordo o un trauma che ha messo in discussione il proprio rapporto con la morte. Per esempio si può sviluppare in persone che hanno perso un genitore durante l’infanzia.
Le paure più legate alla tanatologia in cui si manifesta eccessiva ansia sono: la paura di morire da un momento all’altro, la paura di morire di parto, la paura di morire di infarto, la paura di morire di notte, la paura di morire giovani o la paura di morire dopo un lutto.

Il trattamento più efficace per liberarsi della tanatofobia è senza ombra di dubbio la psicoterapia psicodinamica. La terapia psicologica, individuale o familiare, mira a comprendere le cause sottostanti la fobia e ad individuare i meccanismi di pensiero che innescano la reazione fobica e a sostituirli con schemi di pensiero e di comportamento più funzionali. Essa, inoltre, aiuta anche a capire come superare l'ansia ed affrontare la paura della morte.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

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La transizione alla genitorialità è caratterizzata da un sensibile aumento della vulnerabilità psicologica. Nel periodo perinatale, in particolare, i tassi di incidenza dei disturbi affettivi, sia nelle madri che nei padri, aumentano di due o tre volte rispetto alla media della popolazione generale.
Durante la gravidanza e l’infanzia della prole un compito fondamentale del padre è garantire le condizioni perché la relazione tra madre e bambino si sviluppi e si mantenga in modo adeguato. Questo compito viene assolto in primo luogo occupandosi dei problemi di ordine pratico.
Un’altra funzione maschile di grande importanza, solo recentemente oggetto di ricerche, è quella di proteggere la propria compagna nei periodi in cui è maggiormente esposta a condizioni di potenziale pericolo e a problemi fisici e emotivi. Questi momenti cruciali, nel ciclo di vitale di una famiglia, sono fondamentalmente due: il primo è quello relativo alla gravidanza e ai primi mesi dopo il parto, il secondo coincide con l’adolescenza e l’emancipazione dei figli.

Nel periodo perinatale quindi,un padre troppo preoccupato, ansioso o depresso può rappresentare uno svantaggio per l’equilibrio emozionale della compagna e una minaccia per il buon andamento della relazione tra madre e bambino.
Fino ad poco tempo fa ci si era focalizzati soltanto sul rischio di depressione post partum per la madre, dimenticando però che la gravidanza è un periodo di profonde metamorfosi in cui si possono verificare due depressioni, quella materna ma anche quella paterna, dal momento in cui non nasce solo un figlio, ma anche una madre e un padre.

Fino al secolo scorso il padre come oggetto di studio è stato trascurato. I motivi possono essere legati alla scarsa disponibilità dei padri a partecipare alle ricerche (perché riluttanti a rivelare i propri problemi emotivi), alla minore incidenza e alla diversa espressione della depressione nel maschio, alla propensione dei medici a sottostimare questa patologia (ritenendo la gravidanza e il parto problematiche che coinvolgono solo le donne).
Recentemente, però, l’interesse scientifico per questo argomento è aumentato e le ricerche hanno evidenziato che anche i padri possono soffrire di disturbi affettivi relativi al periodo della gravidanza e alla nascita del bambino, con una incidenza del 10% circa, minore comunque dell’incidenza della depressione post-partum materna.
Il termine Depressione Perinatale Paterna indica la manifestazione nel padre di una sintomatologia depressiva nel periodo che va dall’inizio della gravidanza al primo anno dopo il parto. Rispetto alla depressione post-partum materna la sua espressione clinica è differente, la sintomatologia depressiva è più lieve e i disturbi tendono ad essere meno definiti e sono caratterizzati da vaghi vissuti di tensione, di tristezza, di sconforto e, nei casi più gravi, da stati di impotenza, di disperazione e di malinconia. I disturbi depressivi descritti più frequentemente sono l’umore depresso, l’irrequietezza, l’irritabilità, la preoccupazione costante riguardo l’andamento della gravidanza e la salute del bambino, la perdita di interessi, le difficoltà di concentrazione e di rendimento sul lavoro, l’isolamento sociale, l’aumento o la diminuzione dell’appetito, il calo del desiderio sessuale e l’insonnia. Nel padre le alterazioni dell’umore (pianto, tristezza, senso di incapacità e di impotenza) tendono ad essere più contenute e a presentarsi assieme con altri disturbi affettivi, somatici e comportamentali che tendono a sovrapporsi alla sintomatologia depressiva, oppure a mascherarla. Tra questi in particolare: i disturbi d’ansia (attacchi di panico, fobie, disturbi d’ansia generalizzati, disturbi ossessivo - compulsivi) che sembrano manifestarsi nei giovani padri ancora più frequentemente di quelli depressivi; le lamentele somatiche (disturbi di somatizzazione, sindromi mediche funzionali, preoccupazioni ipocondriache); gli agiti comportamentali (crisi di rabbia, condotte violente, attività fisica o sessuale compulsiva, fughe nel lavoro o con gli amici, suicidio); l’abuso di sostanze (fumo, alcool, psicofarmaci, droghe) e altri disturbi di dipendenza (come quelli da gioco d’azzardo o da internet). In questi casi si manifestano frequentemente disturbi relazionali di coppia, con litigi, conflitti e relazioni extraconiugali (il periodo perinatale è quello in cui gli uomini tradiscono più frequentemente le loro compagne).

Nei casi in cui il padre presenti una sofferenza significativa è necessario rivolgersi ad uno psicoterapeuta per un aiuto psicoterapico individuale (che consenta di ridurre la sintomatologia depressiva e ansiosa, la preoccupazione ipocondriaca e le difficoltà relazionali), di coppia o di famiglia.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

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“Non esiste un modo di essere e di vivere che sia il migliore per tutti. La famiglia di oggi non è né più né meno perfetta di quella di una volta: è diversa perché le circostanze sono diverse”.

Tutti noi abbiamo un’esperienza intima di che cosa sia una famiglia. Questa esperienza, e le relazioni che la strutturano, nel bene e nel male, fanno parte di noi. Questa conoscenza intima della famiglia ce la fa apparire come naturale e ovvia. La famiglia è ciò che Émile Durkheim ha definito un “fatto sociale”, un fatto così ovvio da apparire come dato in natura, al punto da non essere visto nella sua complessità e nelle sue regole storicamente e socialmente situate.
Eppure non c’è nulla di meno naturale della famiglia. Famiglia e coppia sono tra le istituzioni sociali più oggetto di regolazione che ci siano. È la società che di volta in volta definisce quali dei rapporti di coppia e di generazione sono "legittimi" e riconosciuti come famiglia, e quindi hanno rilevanza sociale e giuridica.
Negli ultimi anni sono molti i fattori che hanno contribuito al cambiamento radicale del concetto di famiglia: i fenomeni migratori, l’invecchiamento della popolazione, l’aumento della vita media, le leggi sull’adozione e sull’affido, l’indebolimento del matrimonio come fondamento esclusivo della relazione di coppia e delle scelte procreative, il progressivo riconoscimento delle relazioni omosessuali come relazioni di coppia che hanno uno statuto familiare e la moltiplicazione dei modi in cui si possono realizzare la filiazione e un rapporto genitoriale.
Se ci riflettiamo un poco scopriamo come tramite l’adozione o la procreazione medicalmente assistita (PMA) si può diventare genitori (e conseguentemente figli) senza che ci sia un rapporto sessuale, a volte senza che ci sia una coppia eterosessuale, e altre volte ancora senza che ci sia una coppia. Inoltre le tecniche di fecondazione assistita hanno rotto l’ovvietà del legame biologico tra chi è genitore e chi genera (specie nei casi di donatori esterni alla coppia). E in tutti questi casi sono le norme a stabilire chi può adottare o chi può ricorrere all’ “utero in affitto” oppure chi non è “idoneo”. E le norme cambiano non solo nel tempo, ma anche tra una nazione e l’altra.
Alla luce di questi fattori possiamo identificare moltissimi modi di fare famiglia, nessuno a mio avviso più “corretto” o più “sano” dell’altro, semplicemente modalità differenti tra loro che portano a vissuti psicologici diversi.
Ecco alcuni esempi di realtà familiari tipiche della cultura occidentale:

  • Famiglia patriarcale: in questo tipo di famiglia più generazioni vivono sotto lo stesso tetto.
  • Famiglia nucleare: una coppia eterosessuale forma un nucleo familiare indipendente.
  • Famiglia mononucleare: formata solitamente da un solo genitore e dai suoi figli. Di solito sono la conseguenza o della morte del coniuge o di un divorzio.
  • Famiglia omogenitoriale: nucleo familiare composto da una coppia omosessuale con figli o adottati dalla coppia stessa o di uno dei due partner, o di entrambi, avuti da un precedente matrimonio eterosessuale.
  • Famiglia allargata: si tratta di quelle famiglie in cui almeno uno dei due membri della coppia ha alle spalle un precedente matrimonio o una separazione. In alcuni casi i figli avuti dai matrimoni precedenti si trovano a vivere tutti insieme nella stessa abitazione.
  • Famiglia ricostituita: Si definisce una famiglia ricostituita quando due adulti formano una nuova famiglia in cui uno di loro o entrambi portano un figlio avuto da una precedente relazione. In genere, queste famiglie sono la conseguenza di divorzi, separazioni, famiglie mononucleari o della morte di un coniuge.
  • Famiglie Lat: il termine sta per “Living Apart Together”, vivere separati insieme, cioè una scelta intenzionale di alcune coppie (moltissime attualmente) di non entrare in una convivenza, mantenendo case e vite parzialmente separate.
  • Famiglie adottive: famiglie in cui uno o più figli sono stati adottati.
  • Famiglie transnazionali: questo tipo di famiglie si riferisce perlopiù alle famiglie di migranti. In queste famiglie possono essere i genitori ad aver lasciato il proprio paese lasciando i figli temporaneamente alle cure di qualche parente. In questo tipo di famiglie si possono riconoscere tre tipologie di figli, a volte tutte presenti: i figli nati nel paese di immigrazione, i figli arrivati nel paese di immigrazione con i genitori (o poco dopo) e i figli rimasti nel paese di origine.
  • Le famiglie miste: unioni tra persone diverse di etnia.

Sembra pertanto che il concetto di famiglia non si riferisca più solo a quell’istituzione naturale che la vedeva formata esclusivamente formata da un uomo, una donna e dai loro figli. Occorre considerarla piuttosto come una costruzione sociale, che cambia e si trasforma in base alle dinamiche delle persone, ai mutamenti economici e giuridici, allo stile di vita che viene instaurato nei rapporti all’interno della coppia e all’esterno verso i figli e il mondo.
Indipendentemente da come questi nuovi nuclei familiari siano nati, la consapevolezza che dovrebbe accomunare tutti è che una famiglia nasce sempre e comunque dall’amore, dalla responsabilità e dal rispetto, e non solo ed esclusivamente per legami biologici.
Da un punto di vista clinico, quindi, di particolare interesse risulta l'impatto sul funzionamento familiare dell'interazione tra processi emotivi (p.e. gestione dello stress, della sofferenza, dell'isolamento e di sentimenti depressivi legati alla separazione, al divorzio, al coming-out e all'infertilità), processi identitari (gestione delle perdite relative alla dissoluzione dei precedenti legami, dei conflitti di lealtà e dell'attivazione di risorse per la costruzione di nuove appartenenze) e processi psicosociali (gestione dell'impatto della discriminazione, dell'omofobia, dell'assenza di modelli socio-culturali basati sulla diversità familiare, della scarsità o addirittura mancanza di riconoscimento giuridico, politico e culturale).

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

 

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