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Il cutting e gli adolescenti: quando tagliarsi fa stare bene

“La pelle è il confine col mondo, il corpo è l’unica cosa sulla quale un adolescente – in quella fase della vita – sente di avere un potere, e quel potere lo affascina”.

Tagliare, incidere, ferire la pelle, gambe e braccia con lamette, coltelli affilati, temperini, punte di vetro, lattine usate: è il cutting, una forma di autolesionismo che comprende una vasta gamma di comportamenti tra cui soprattutto il taglio, ma anche piccole ustioni, graffi ed ematomi e che comincia a diventare un fenomeno corposo in Italia tra i ragazzi di età compresa tra i 12 e i 18 anni.

Il 70 per cento sono ragazzine dai 12 ai 14 anni, che nella maggioranza dei casi scelgono di ferirsi le braccia con la lametta. Il 19 per cento, uno su cinque, riesce a smettere di tagliarsi, ma solo grazie al supporto di uno psicoterapeuta.

Non c’è un’unica spiegazione che renda conto dei motivi per cui una persona può decidere di tagliarsi. Se alcuni ragazzi e ragazze si tagliano, è per controllare e interrompere, in modo indiretto, un dolore mentale troppo forte, un’angoscia troppo intensa e insostenibile: preferiscono soffrire nel corpo che psicologicamente, preferiscono il dolore fisico al dolore mentale e fanno in modo che il dolore fisico prenda il posto di quello mentale. Le ferite inflitte al corpo sono un mezzo estremo con cui lottare contro la sofferenza psicologica.

Per altri adolescenti tagliarsi è un modo per percepire di esistere ed essere vivi: meglio un dolore fisico che non sentire niente o sentirsi vuoti e inutili.

Tagliarsi dà l’illusione di un sollievo, a volte addirittura euforia, come se dai tagli fuoriuscissero finalmente le emozioni che non si riescono a tollerare dentro di sé: la disperazione, la tristezza, il sentirsi rifiutati, la solitudine e soprattutto la rabbia verso qualcun altro da cui si sente di dipendere e che si teme si allontani. È una rabbia che diventa odio contro se stessi e la propria incapacità nel gestire una data situazione.

La ferita crea un rifugio provvisorio, che consente all’individuo di riprendere fiato: […] serve a scaricare una tensione, un’angoscia che non lascia più alcuna scelta, nessun’altra risorsa – e di cui l’individuo deve potersi liberare.

Tagliarsi, ma anche bruciarsi con le sigarette (burning) o marchiarsi a fuoco la pelle con un laser o un ferro rovente (branding) o grattarsi sino a farsi uscire il sangue, permette, in assenza di strategie più mature e funzionali, di ristabilire un equilibrio, di ricollocarsi nella propria vita, di esprimere la propria indipendenza affettiva dai genitori o una sfida nei confronti delle regole che questi ultimi vogliono imporre.

I segni e le cicatrici lasciati da questi gesti autodistruttivi racchiudono una sofferenza per la quale la persona non ha ancora trovato parole per raccontarla e spiegarla.

Cutting, burning e branding sono comportamenti particolarmente frequenti durante l’adolescenza. E questo non è un caso, se teniamo presente che il corpo che cambia, amato e al tempo stesso rifiutato, il corpo dove nasce il desiderio sessuale e in cui si radica l’identità è il terreno di battaglia di ogni adolescente, di ogni ragazzo e ragazza.

Con il tagliarsi, l’adolescente cerca una disperata via d’uscita dalla fatica per lui insostenibile della crescita, dal senso di fallimento per il non sentirsi in grado di farcela a diventare grande.

Come accorgerti che tuo figlio o un tuo amico si tagliano?

Chi decide di tagliarsi lo fa di solito di nascosto e cerca di mantenere il segreto su questo comportamento. Eventuali indicatori dell’esistenza di comportamenti di cutting, burning o branding possono essere:

  • vestiti non appropriati alla stagione, ad esempio indossare esclusivamente camicie o magliette con le maniche lunghe in piena estate;
  • macchie di sangue sui vestiti;
  • ferite, lividi o tagli non spiegati;
  • possesso di oggetti taglienti (rasoi, lamette, forbici, coltellini, aghi, pezzi di vetro);
  • isolamento, ad esempio passare molto tempo in bagno;
  • irritabilità;
  • difficoltà nel fronteggiare emozioni forti;
  • rabbia eccessiva o umore depresso;
  • mancanza di legami sociali;
  • disegni, scritti ecc. che hanno per tema il dolore, la tristezza, il ferirsi.

Diagnosi di autolesionismo

Il DSM-V (APA; 2013) considera l’autolesività non suicidaria come categoria diagnostica a sé stante. I criteri per la diagnosi di autolesionismo proposti nel manuale sono i seguenti:

Criterio A

Nell’ultimo anno, in cinque o più giorni, l’individuo si è intenzionalmente inflitto danni di qualche tipo alla superficie corporea in grado di indurre sanguinamento, lividi o dolore (per es. tagliandosi, bruciandosi, accoltellandosi, colpendosi, strofinandosi eccessivamente), con l’aspettativa che la ferita porti a danni fisici soltanto lievi o moderati (non c’è intenzionalità suicidaria).

Criterio B

L’individuo è coinvolto in condotte autolesive con una o più delle seguenti aspettative:

  1. Ottenere sollievo da una sensazione o uno stato cognitivo negativi
  2. Risolvere una difficoltà interpersonale
  3. Indurre una sensazione positiva

Criterio C

L’autolesività intenzionale (le condotte autolesive)è associata ad almeno uno dei seguenti sintomi:

  1. Difficoltà interpersonali o sensazioni o pensieri negativi, come depressione, ansia, tensione, rabbia, disagio generalizzato, autocritica, che si verificano nel periodo immediatamente precedente al gesto autolesivo.
  2. Prima di compiere il gesto autolesivo, presenza di un periodo di preoccupazione difficilmente controllabile riguardo al gesto che l’individuo ha intenzione di commettere.
  3. Pensieri di autolesività presenti frequentemente, anche quando il comportamento non viene messo in atto. 

Autolesionismo: una categoria diagnostica, diverse forme di sofferenza

Nel DSM-V (APA, 2013) l’autolesionismo è stato inserito come categoria diagnostica a sé stante; ciò non significa che i comportamenti autolesivi siano riconducibili ad un’unica modalità di auto-danneggiamento. L’identificazione delle diverse forme che il disturbo può assumere risulta utile per fare chiarezza e facilita un intervento tempestivo.

Le 3 categorie di autolesionismo

Ciò che in letteratura è definito  ‘deliberate self harm’ – in italiano ‘auto-danneggiamento intenzionale’- comprende un ventaglio di comportamenti patologici, riconducibili a tre categorie principali:

  1. le condotte di auto-danno, come l’abuso di sostanze psicoattive, la sessualità promiscua e il gioco d’azzardo,
  2. le condotte di auto-avvelenamento, come l’ingestione di sostanze tossiche e l’overdose di droghe,
  3. le condotte autolesive, come tagliarsi e bruciarsi. 

Categorie delle condotte autolesive

Già negli anni Novanta le ricerche condotte da Favazza e colleghi hanno reso possibile una prima classificazione delle condotte autolesive. Favazza e Rosenthal (1993) hanno identificato diverse tipologie di autolesionismo sulla base del grado di danneggiamento dei tessuti e dei pattern comportamentali.

  • L’autolesionismo maggiore consiste in atti infrequenti e isolati che provocano un danneggiamento dei tessuti grave e permanente; solitamente è associato alle psicosi o alle intossicazioni acute e include atti quali la castrazione e l’enucleazione oculare.
  • L’autolesionismo stereotipico comprende comportamenti ripetuti in modo costante e ritmico, che sembrano essere privi di un significato simbolico, comunemente associati a grave ritardo mentale, all’autismo o alla sindrome di Tourette; ne sono esempi il mordersi o dare colpi con la testa.
  • L’autolesionismo moderato o superficiale consiste in atti episodici o ripetuti a bassa letalità che comportano un lieve danneggiamento dei tessuti corporei (tagli, bruciature, abrasioni). Il soggetto utilizza strumenti esterni come rasoi, lamette, forbicine e compie gesti autolesivi che solitamente hanno un significato simbolico, in genere relazionale. All’interno di questa categoria, Favazza e Simeon (1995) hanno identificato tre forme principali. 

Le 3 forme di autolesionismo moderato

L’autolesionismo moderato è definito compulsivo quando si declina in comportamenti quotidiani, come la tricotillomania (tirarsi i capelli) o l’onicofagia (mangiarsi le unghie); si tratta di una forma di discontrollo degli impulsi.

Episodico è invece un tentativo di riacquisire un senso di controllo e padronanza di fronte a emozioni e pensieri intollerabili, mettendo in atto comportamenti autolesivi come tagliarsi, bruciarsi o colpirsi.

Ripetitivo, infine, è una dipendenza dal comportamento autolesivo, che può diventare identitario (Es. ‘sono un cutter’).

 

“Perché ti tagli?”: le cause dell’autolesionismo

Il quadro delineato mostra chiaramente che il termine autolesionismo è un’etichetta diagnostica che racchiude comportamenti e vissuti anche piuttosto diversi tra loro. Nell’indagare le cause di tali gesti è quindi opportuno cercare di tracciare un quadro variegato, evitando semplificazioni fuorvianti.

Autolesionismo come strategia di coping

L’autolesionismo può costituire una strategia di coping e regolazione emotiva: di fronte allo stato emotivo indesiderato e vissuto come intollerabile, il soggetto si ferisce cercando di ripristinare uno stato tollerabile. Si potrebbe dire che la messa in atto di comportamenti autolesivi sia un tramutare in sofferenza fisica (quindi più reale e più facilmente gestibile) una sofferenza emozionale che non si sa come gestire: per un po’ ci si occupa solo del dolore fisico, distogliendosi temporaneamente da quello interiore (Chapman et al., 2006; Klonsky, 2007; Kamphuis et al., 2007). In questo senso l’autolesionismo sembra assumere la valenza di una strategia disadattava di coping (nozione proposta da Favazza, 1998).

Autolesionismo come punizione autoinflitta

Una seconda funzione dell’autolesionismo è la punizione autoinflitta: sembra infatti che, per alcuni soggetti, tra l’autocriticismo e i comportamenti di autodanneggiamento esista una relazione causale (Nock et al., 2008; Hooley & St Germain, 2013).

Autolesionismo come comunicazione

Infine, l’autolesionismo può costituire una forma di comunicazione del proprio disagio. Attraverso le ferite, infatti, la propria sofferenza appare evidente agli occhi degli altri.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

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