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Se volete diventare fobici c’è un termine che dovete cancellare dal vostro vocabolario: “paura”. State lì con le gambe tremanti, il petto in fiamme, il cuore che batte all’impazzata, i capelli dritti, vi squagliate in sudori freddi, avete gli occhi fuori dalle orbite, ma non avete paura. Avete una fobia, un attacco di panico, una crisi di nervi. Paura, mai.

Chi ha paura scappa, invece voi non scappate mai: rimanete paralizzati, chiamate qualcuno, al limite andate all’ospedale. Non scappate nemmeno dai luoghi elevati, dai tunnel, dai supermercati, da una piazza deserta, da certi animali al massimo evitate di andare in questi posti per non avere un attacco. Ma anche così, è meglio tenere segreta questa eventualità, perché gli altri non vi considerino meno coraggiosi di quanto siete. Riuscirete a mettere insieme un’infinità di argomenti per convincere gli altri (e magari voi stessi) che si tratta della soluzione migliore per tutti.

Ammettiamo che in effetti siete persone coraggiose, ma è proprio qui il problema. la carriera di fobico inizia molto precocemente. Sicuramente un buon fobico comincia fin da piccolo a ficcarsi in avventure temerarie, ed è naturale che di tanto in tanto perda di vista i genitori. A questo sopravvive, con maggiore o minore angoscia. Ma appena capisce che non muore nessuno, comincia ad andare sempre più in là. I vantaggi sono immensi: la vostra vita si arricchisce di nuove esperienze e, se tutto va bene, non vi mancherà l’occasione per altre sfide. Sperimenterete una vita senza limiti, e in generale va tutto bene.

Non sempre però: vi rompete una gamba, vi riempiono di botte, dovete sbrigarvela con la polizia, fate brutti incontri. A questo punto, in lacrime (di pentimento), cercherete rifugio presso la famiglia e i genitori. I quali non chiedono di meglio perché hanno l’occasione, per la millesima volta, di mettervi in guardia contro i pericoli di un mondo impossibile. Il tutto comunque non fa che rafforzare la vostra attrazione per la magia di quel mondo, e finite per gustare il doppio piacere della trasgressione e della tenerezza, se le cose vanno male. Così per voi la famiglia diventa preziosa, un sicuro rifugio nelle tempeste. Senza accorgervene state diventando dipendenti. La sola idea vi porta a cercare l’indipendenza a tutti i costi e a mettervi di nuovo nei pasticci. Attaccamento o distacco, questo è il vostro grande dilemma.

Continuando così, però un giorno vi stufate e decidete di optare proprio per la stabilità. I primi tempi andrà tutto bene, ma preparatevi a quello che seguirà.

La vita misurata e abitudinaria non fa per voi. Se eravate pronti ad andare a 200 all’ora, perché ora dovreste rispettare i limiti di velocità? Casa, famiglia, lavoro, che angoscia! È ovvio che lo fate in nome di principi che avete accettato, che altri seguono e che voi trovate ragionevoli. In primo luogo, i valori familiari. Però non vi sentite bene. Vi scoprite a sospirare, circostanza che si ripete sempre più spesso. Sospirate, sospirate a volontà, perché questo è il vero segreto dei fobici.

Gli eventi possono precipitare da un momento all’altro, ma ci sono avvenimenti che aiutano, soprattutto quelli che vi mostrano l’esistenza di confini definitivi. Se, ad esempio, un vostro amico ha un incidente, se qualcuno che conoscete resta vittima di un infarto, se perdete una persona cara, comincerete a pensare che la vita, oltre che piatta, è anche pericolosa, proprio come vi avevano detto i vostri genitori. È naturale che iniziate a preoccuparvi per voi stessi: vi ritraete sempre di più, e per questo sospirate sempre di più.

Se non vi capita nessuna disgrazia, non perdete le speranze e cercate un’altra ragione per sospirare. Provate a rinunciare ai vostri sport preferiti e a sospirare ancora di più. A volte potrà sembrarvi che l’aria non circoli bene, e vi mettete a sforzare il respiro. Continuate così, per constatare che più respirate meno sospirate, ed è proprio questa la strada giusta per raggiungere il vostro obiettivo.

Vi avevo già detto che il segreto della fobia sta nel sospirare. Adesso però è arrivato il momento di avvertirvi che a interessarci non sono i sospiri, ma l’iperventilazione. Infatti, più sospirate più arricchite di ossigeno i polmoni e il sangue. Visto che quelle canaglie dei polmoni si ostinano a lavorare da soli, quando c’è troppo ossigeno nel vostro sangue (e troppo poca anidride carbonica) smettono di lavorare. Risultato: il vostro diaframma non si muove, i riflessi si disattivano, e soprattutto si disattiva quel riflesso di espirazione che da sollievo al sospiro ( per i più curiosi, si tratta del riflesso di Hering – Breuer). Al momento però, spaventati come siete, pensate di non riuscire a respirare. Bisogna sforzare il respiro, cosa che complicherà tutto ma vi aiuterà a raggiungere i vostri scopi.

In effetti, oltre ad avere i polmoni momentaneamente paralizzati, state modificando tutto l’organismo (per gli specialisti, diminuisce l’acidità degli organi interni per mancanza di anidride carbonica). Di conseguenza: gli organi cominciano ad andare a 100 all’ora, contraendosi e decontraendosi. Il cuore batte, i muscoli tremano, l’intestino borbotta, le arterie si contraggono provocando vertigini e dolori al petto, la pelle comincia ad avvertire le più svariate sensazioni, dette anche formicolio. A questo punto avete una sufficiente quantità di motivi per convincervi di avere la malattia che temete: se pensate di stare soffocando, verificate che il vostro diaframma non si muove (e continuate a sforzare il respiro); se vi preoccupa una disfunzione cardiaca, controllate i battiti e il dolore al petto,; se è la digestione a impensierirvi, fate attenzione alla tempesta nel vostro intestino; se avete paura di una trombosi, tenete conto delle vertigini e del formicolio.

Ovviamente il vostro organismo è accelerato e ossigenato dal proposito di scappare a gambe levate (l’organismo è predisposto a queste reazioni automatiche). Anche voi avvertite l’impulso, e siete arrivati a credere di stare perdendo il controllo e di uscire pazzi. Ma fuggire mai: restate lì piantati a sopportare tutte queste sensazioni, a complicare ogni cosa con la respirazione, a sentirvi svenire e pensare di morire. Potreste chiedere aiuto, è probabile che vi portino da un dottore o all’ospedale. Avete appena avuto un attacco, e i medici vi diranno che si tratta di un “attacco di panico”.

A questo punto è meglio cominciare a preoccuparvi della vostra salute fisica, in fin dei conti cosa potrebbe mai dirvi uno psicoterapeuta? È preferibile passare da diversi medici eccentrici o poco preparati, che vi diranno cose contraddittorie e vi aiuteranno così a prestare maggiore attenzione alla vostra salute. A questo punto comincerete a premunirvi: smetterete di fare esercizio fisico per non avere più palpitazioni, continuerete a trastullarvi con gli onnipresenti sospiri e, per sicurezza, non tornerete mai sul luogo (del delitto) dell’attacco. Abbiamo già visto che eravate in conflitto con la vita piatta ma necessaria che conducevate. Per fortuna, è molto probabile che un simile attacco capiti in momenti in un momento in cui vi state spingendo troppo in là. Può accadere in viaggio, attraversando un ponte, durante un incontro tentatore, in un supermercato, nell’ebbrezza di libertà e rischio data dalla vetta di una montagna o da una grande piazza deserta. Per restare fedeli alla vostra prigione, l’ideale è evitare queste situazioni, fin troppo ovvie o semplicemente simboliche (non dimentichiamoci che l’uomo è un animale simbolico).

La cosa migliore è fregarsene del simbolismo ed evitare semplicemente le situazioni in cui vi può venire un attacco. Il problema adesso è la vostra geografia ambientale. Vi abituerete a uscire sempre accompagnati, non sia mai vi capitasse qualcosa quando state soli, ma la realtà è che questo è il miglior modo per coltivare quei legami che non volete perdere.

Le cose si complicano, perché il solo pensiero degli attacchi vi spaventa e vi procura nuovi attacchi. Ormai riconoscete di aver paura, ma non una paura qualsiasi: unicamente la paura di aver paura. E al minimo segnale di allarme via subito da quel luogo. A poco a poco comincerete ad evitare tutto fino a non poter uscire di casa. Avrete anche perso ogni autonomia, perché non riuscirete più a fare niente da soli. Siete totalmente dipendenti dagli altri, motivo per cui non c’è più nessun rischio di separazione. Voi che avevate una vita senza limiti, siete rimasti bloccati negli angusti confini del vostro focolare. Se le cose proseguiranno in questo modo, avrete avuto in dono la perla delle fobie: una “agorafobia con attacchi di panico”.

Vi consiglio a questo punto di trovare un aiuto competente, altrimenti correte il rischio di imbarcarvi troppo tardi i un’altra carriera patologica (depressione, somatizzazione, etc).

Articolo tratto da: “Come diventare un malato di mente” di J.L. Pio Abreu, 2003, Voland S.r.l.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

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Non è facile vivere ogni istante completamente consapevoli di dover morire. È come cercare di fissare direttamente il sole: si riesce a sopportarlo per poco.

La parola tanatofobia deriva dal greco thanatos che significa morte, e phobos che significa paura, letteralmente “paura della morte”. La tanatofobia, colpisce milioni di persone in tutto il mondo. In alcuni individui può generare ansia e/o pensieri ossessivi. Più precisamente, la tanatofobia è la paura della morte e/o della propria mortalità, mentre la paura delle persone che muoiono o delle cose morte è conosciuta come "necrofobia", che è un concetto leggermente diverso. La nostra esistenza è sempre adombrata dalla consapevolezza che cresceremo, giungeremo a maturazione finché, inevitabilmente, avvizziremo e moriremo.
Per alcuni la paura della morte si manifesta solo in modo indiretto, vuoi come un’inquietudine generalizzata o mascherata sotto le sembianze di un diverso sintomo psicologico; altri individui sperimentano un flusso esplicito e cosciente di angoscia nei confronti della morte; e per altri ancora la paura della morte si manifesta nell’esplosione di un terrore che impedisce qualsiasi felicità e realizzazione.

L’angoscia riguardo alla morte aumenta e diminuisce durante il ciclo vitale. I bambini fin da piccoli non possono fare a meno di notare il manifestarsi intermittente della mortalità che li circonda (foglie, insetti e animali domestici morti, nonni che scompaiono). Poi, dai sei anni fino alla pubertà la paura della morte solitamente rimane in secondo piano per erompere con tutta la sua forza durante l’adolescenza. Gli adolescenti spesso sono assillati dalla morte e alcuni di loro prendono in considerazione l’idea del suicidio. Molti giovani di quell’età possono rispondere all’angoscia di morte diventando maestri e dispensatori di morte nella vita virtuale, grazie ai videogiochi. Altri sfidano la morte con umorismo macabro e canzoni in cui viene schernita, o guardando film horror con gli amici. Altri adolescenti sfidano la morte affrontando rischi temerari. Con il passare degli anni le preoccupazioni adolescenziali nei confronti della morte vengono spinte da parte dai due compiti principali dell’esistenza di un giovane adulto: dedicarsi alla carriera e mettere su famiglia. Tre decadi più tardi, quando i figli si allontanano da casa e ci si avvicina alla pensione, si viene assaliti dalla crisi di mezza età e l’angoscia della morte erompe con tutta la sua forza.

Sin dall’alba dei tempi la morte ha avuto un ruolo centrale nelle dottrine religiose e nel pensiero filosofico. Secondo Epicuro, filosofo greco nato nel 341 a.C., c’era un solo obiettivo adeguato per la filosofia: alleviare la miseria umana causata dalla nostra onnipresente paura della morte. Secondo questo filosofo, il cui nome è legato alla corrente di pensiero dell’epicureismo, la visione spaventosa della morte interferiva con il godimento della vita e intaccava ogni forma di piacere. Fa parte del genio di Epicuro aver anticipato la visione contemporanea dell’inconscio: fu lui a evidenziare infatti che le preoccupazioni di morte non sono consapevoli per la maggior parte degli individui, ma devono essere dedotte da manifestazioni sotto mentite spoglie. Epicuro formulò una serie di argomentazioni per tentare di alleviare l’angoscia della morte. Ne propongo tre, a mio avviso preziose all’interno di un lavoro di psicoterapia.
La prima argomentazione è quella della mortalità dell’anima. Secondo Epicuro l’anima è mortale e perisce assieme al corpo. Se siamo mortali e l’anima non ci sopravvive, allora non abbiamo nulla da temere, non avremo coscienza né rimpianti.
Nella seconda argomentazione Epicuro ipotizza che la morte per noi non sia nulla, in quanto l’anima è mortale e si disperde con la morte. Quel che è disperso non percepisce, e qualsiasi cosa non percepita per noi è il nulla. In altre parole: dove sono io, non è la morte, dove è la morte non sono io. Epicuro affermava: perché temere la morte se noi non la possiamo mai percepire?

La terza argomentazione di Epicuro sostiene che la nostra condizione di non essere dopo la morte è la stessa nella quale ci trovavamo prima della nascita. Credo sia confortante pensare che le due condizioni del non essere, il tempo che precede la nostra nascita e quello che segue la nostra morte, siano identiche e che noi abbiamo tanta paura della seconda e così poca preoccupazione riguardo alla prima.

Il dover affrontare l’idea della morte non porta necessariamente alla disperazione e non priva la vita di qualsiasi scopo. Al contrario può essere una consapevolezza che conduce ad una vita più piena. Secondo Irvin D. Yalom, psichiatra e psicoterapeuta americano di fama mondiale, anche se la fisicità della morte ci distrugge, l’idea della morte ci salva. Secondo l’autore alcune esperienze, che lui chiama esperienze di risveglio, ci fanno sintonizzare con il semplice fatto che le cose sono, che noi siamo, con il “miracolo dell’essere” in sé. In questa modalità di pensiero non solo siamo più consapevoli dell’esistenza, della mortalità e delle altre caratteristiche immutabili della vita, ma anche più pronti a operare cambiamenti significativi. Molti resoconti di cambiamenti significativi e durevoli originati da un confronto diretto con la morte sono una prova a sostegno di questa opinione. Secondo Yalom i catalizzatori principali per un’esperienza di risveglio sono eventi pressanti dell’esistenza, come il dolore per la perdita di qualcuno che si ama, una malattia che mette a rischio la vita, la rottura di una relazione intima, alcune pietre miliari della nostra esistenza come un compleanno importante (cinquanta, sessanta, settant’anni), traumi dovuti a eventi tragici quali un incendio o una violenza o una rapina, oppure il figli che lasciano la casa, la perdita di un lavoro, l’andare in pensione.

Molto spesso chi ha paura di morire manifesta i sintomi di ansia intensa al solo pensiero della morte. Paura intensa, tensione, tremolio, pianto, disperazione. Sono questi i sintomi più comuni per chi ha questo tipo di paura. Questo tipo di paura è molto più frequente nelle persone con ansia, depressione e ipocondria. Spesso questa forte paura ha alla base un significato più nascosto. Le cause sono da attribuire ad  un ricordo o un trauma che ha messo in discussione il proprio rapporto con la morte. Per esempio si può sviluppare in persone che hanno perso un genitore durante l’infanzia.
Le paure più legate alla tanatologia in cui si manifesta eccessiva ansia sono: la paura di morire da un momento all’altro, la paura di morire di parto, la paura di morire di infarto, la paura di morire di notte, la paura di morire giovani o la paura di morire dopo un lutto.

Il trattamento più efficace per liberarsi della tanatofobia è senza ombra di dubbio la psicoterapia psicodinamica. La terapia psicologica, individuale o familiare, mira a comprendere le cause sottostanti la fobia e ad individuare i meccanismi di pensiero che innescano la reazione fobica e a sostituirli con schemi di pensiero e di comportamento più funzionali. Essa, inoltre, aiuta anche a capire come superare l'ansia ed affrontare la paura della morte.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

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“E’ cominciata con la paura. Paura delle automobili. Paura dei treni. Paura delle luci troppo forti. Dei luoghi troppo affollati., di quelli troppo vuoti, di quelli troppo chiusi, di quelli troppo aperti. Paura dei cinema, dei supermercati, delle poste, delle banche. Paura degli sconosciuti, paura dello sguardo degli altri, di ogni altro, paura del contatto fisico, delle telefonate. Paura di corde, lacci, cinture, scale, pozzi, coltelli. Paura di stare con gli altri e paura di stare da sola.”

Inizia così il libro autobiografico “Parla, mia paura” di Simona Vinci, all’improvviso, quasi come un attacco di panico. Con il suo linguaggio diretto l’autrice sin dalle prime pagine ci fa entrare all’interno del suo dolore e del suo disagio di stare al mondo. Ci racconta della sua depressione, del suo panico, del suo sentirsi sola, del suo corpo con il quale non è a suo agio. Ci parla dei percorsi che ha fatto per ricominciare a vivere (uno con una psicoanalista, l’altro, contemporaneamente, con un chirurgo plastico), ci riporta alla sua adolescenza, alla sua gravidanza, alla sua maternità, fino ad arrivare all’evento che, forse, è la causa dello scatenarsi del suo malessere.

In una società dove la depressione e altre forme di disagio psicologico, se non tutte, sono un tabù, in cui mostrarsi fragili e vulnerabili è vissuto con vergogna, in cui la maternità deve per forza essere sinonimo di felicità e gioia e mai di stanchezza e malessere, Simona Vinci mettendosi a nudo prova ad offrire ad altri “la possibilità, se non di immedesimarsi, almeno di cogliere un riflesso di sé nelle mie parola”.

L’autrice dichiara la propria riconoscenza ad un solo farmaco, appunto la parola: “è grazie alle parole, quelle che ho letto, quelle che ho scritto, quelle che ho ascoltato e quelle che ho pronunciato, se sono ancora viva”.

Un romanzo che merita di essere letto perché privo di qualsiasi tipo di vena consolatoria, scritto con sguardo severo, incapace di ipocrisia, un romanzo in cui la parola diventa sia condivisione (“ogni vicenda umana è, in qualche modo, di chiunque voglia condividerla”), sia mezzo attraverso il quale affidandoci ad essa, scavando e mettendoci a nudo, facciamo chiarezza impedendoci di precipitare.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

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